"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 8 marzo 2014

René Guénon, La crisi del mondo moderno. Cap. 6 - Il caos sociale

René Guénon
La crisi del mondo moderno

Cap. 6 - Il caos sociale

Non è nostra intenzione, in questo studio, occuparci in modo particolare del punto di vista sociale; esso ci interessa solo indirettamente, perché non è altro che un’applicazione assai lontana dei principi fondamentali, ragion per cui non è certo in questo dominio che, in ogni caso, potrebbe aver inizio un raddrizzamento del mondo moderno.
In effetti, tale raddrizzamento, se fosse intrapreso così alla rovescia, vale a dire partendo dalle conseguenze piuttosto che dai principi, mancherebbe necessariamente di una base seria e sarebbe del tutto illusorio; non ne potrebbe derivare alcunché di stabile e ci sarebbe da rifare tutto incessantemente, poiché si sarebbe trascurato di intendersi innanzi tutto sulle verità essenziali. È questo il motivo per il quale non ci è possibile accordare alle contingenze politiche, perfino dando a questo termine il suo significato più ampio, un valore diverso di quello di semplici segni esteriori della mentalità di un’epoca; ma, sotto questo aspetto, non possiamo passare del tutto sotto silenzio le manifestazioni del disordine moderno nel dominio sociale propriamente detto.
Come dicevamo prima, nello stato attuale del mondo occidentale, nessuno si trova più nel posto che gli compete normalmente in ragione della propria natura; è questo che si intende quando si dice che le caste non esistono più, poiché la casta, intesa secondo il suo vero significato tradizionale, non è altro che la stessa natura individuale con l’insieme delle speciali attitudini che essa comporta e che predispongono ciascun uomo a compiere tale o tal altra funzione determinata. Dal momento che l’accesso ad una qualunque funzione non è più sottomesso ad alcuna regola legittima, ne deriva inevitabilmente che ciascuno sarà indotto a fare una qualsiasi cosa, e spesso la cosa per la quale è meno qualificato; il ruolo da lui svolto nella società verrà determinato, non dal caso, che in realtà non esiste[1], ma da ciò che può dare l’illusione del caso, vale a dire dal groviglio di ogni sorta di circostanze accidentali; mentre quello che vi interverrà di meno sarà proprio il solo fattore che dovrebbe contare in un caso del genere, e cioè le differenze di natura che esistono fra gli uomini.
La causa di tutto questo disordine sta nella negazione di queste stesse differenze, che comporta la negazione di ogni gerarchia sociale; e questa negazione, inizialmente, era forse appena cosciente e più pratica che teorica, dal momento che in realtà la confusione delle caste ha preceduto la loro completa soppressione, o, in altri termini, dal momento che ci si è confusi sulla natura degli individui prima ancora di giungere a non tenerla in alcun conto; ma, in seguito, tale negazione è stata eretta dai moderni in pseudo-principio, col nome di «uguaglianza». Sarebbe troppo facile dimostrare che l’uguaglianza non esiste affatto per la semplice ragione che non potrebbero esserci due esseri che, ad un tempo, fossero realmente distinti e completamente simili fra loro sotto tutti gli aspetti; e sarebbe altrettanto facile trarre tutte le conseguenze assurde che derivano da quest’idea chimerica, in nome della quale si pretende di imporre dovunque una completa uniformità: per esempio somministrando a tutti un identico insegnamento, come se tutti fossero ugualmente atti a comprendere le stesse cose, e come se per fargliele comprendere fosse possibile usare con tutti indistintamente gli stessi metodi. D’altronde, ci si può chiedere se non si tratti di «apprendere» piuttosto che di «comprendere» veramente, vale a dire se, nella concezione tutta verbale e «libresca» dell’insegnamento attuale, non si sia sostituita la memoria all’intelligenza, concezione che peraltro ha solo in vista l’accumulo di nozioni rudimentali ed eteroclite ed in cui la qualità è interamente sacrificata alla quantità; cosa questa che si verifica dappertutto nel mondo moderno, per delle ragioni che spiegheremo completamente in seguito: insomma si tratta della dispersione nella molteplicità. E a questo proposito ci sarebbero molte cose da dire circa i misfatti dell’«istruzione obbligatoria»; ma non è questo il luogo per insistervi ulteriormente, e, per non uscire dai limiti che ci siamo posti in questo studio, ci dobbiamo accontentare di segnalare di sfuggita questa speciale conseguenza delle teorie «egualitarie» come uno degli elementi del disordine che oggi sono così numerosi che non è possibile pensare di enumerarli tutti senza ometterne qualcuno.
Naturalmente, quando ci troviamo in presenza di un’idea come quella di «uguaglianza» o come quella di «progresso», oppure degli altri «dogmi laici» che quasi tutti i nostri contemporanei accettano ciecamente, e la maggior parte dei quali hanno incominciato ad essere formulati chiaramente nel corso del XVIII secolo, non ci è possibile ammettere che tali idee siano nate spontaneamente. In definitiva, esse sono delle vere «suggestioni», nel senso più ristretto del termine, e fra l’altro potevano produrre il loro effetto solo in un ambiente già predisposto a riceverle; esse non hanno creato di tutto punto la condizione di spirito che caratterizza l’epoca moderna, ma hanno largamente contribuito a mantenerla e a svilupparla fino ad un grado che sicuramente non si sarebbe raggiunto senza di esse. Se queste suggestioni dovessero svanire, la mentalità generale sarebbe assai prossima ad un cambiamento di direzione; è per questo che sono così accuratamente ben tenute da tutti coloro che hanno qualche interesse a mantenere il disordine, se non addirittura ad aggravarlo ancora; ed è sempre per questo che, in un tempo in cui si pretende di mettere tutto in discussione, esse sono le sole cose che non si permette mai vengano discusse. D’altronde, è difficile determinare con esattezza il grado di sincerità di coloro che si fanno propagatori di simili idee, ed è difficile sapere in che misura certi uomini finiscano col lasciarsi sedurre dalle proprie menzogne e col lasciarsi suggestionare mentre vorrebbero suggestionare gli altri; accade perfino che, in una propaganda del genere, coloro che svolgono il ruolo degli ingenui siano spesso gli strumenti migliori, perché vi apportano una convinzione che altri avrebbero difficoltà a simulare, convinzione che, al tempo stesso, è facilmente contagiosa; ma, dietro tutto questo, almeno inizialmente, occorreva la presenza di un’azione molto più cosciente, una direzione che non poteva essere esercitata che da uomini che sapevano perfettamente ciò che facevano nel diffondere in tal modo tali idee.
Noi abbiamo parlato di «idee», ma è solo molto impropriamente che questa parola può essere usata in questo caso, poiché è del tutto evidente che non si tratta minimamente di idee pure e neanche di qualcosa che appartenga, poco o tanto, all’ordine intellettuale; esse sono, se si vuole, delle false idee, ma sarebbe ancora meglio chiamarle «pseudo-idee», destinate principalmente a provocare delle reazioni sentimentali, il che è effettivamente il mezzo più efficace e più semplice per agire sulle masse. D’altronde, da questo punto di vista, la parola ha un’importanza maggiore della nozione che è destinata a rappresentare, e la maggior parte degli «idoli» moderni sono solo veramente delle parole, poiché in questo caso si produce quel singolare fenomeno conosciuto col nome di «verbalismo», ove la sonorità delle parole basta a dare l’illusione del pensiero; l’influenza che gli oratori esercitano sulle folle è particolarmente caratteristica a riguardo, e non c’è bisogno di studiarli da vicino per rendersi conto che si tratta proprio di un processo di suggestione del tutto simile a quello degli ipnotizzatori.
Ma, senza dilungarci oltre, ritorniamo alle conseguenze derivate dalla negazione di ogni vera gerarchia, e notiamo che, allo stato attuale delle cose, non un solo uomo svolge la sua propria funzione, se non eccezionalmente e come per accidente, quando invece è il contrario che dovrebbe avvenire; ma si arriva perfino al punto che lo stesso uomo sia chiamato ad esercitare successivamente delle funzioni del tutto diverse, come se egli potesse cambiare attitudine a volontà. Questo può sembrare paradossale in un’epoca di «specializzazione» ad oltranza, e tuttavia è così, soprattutto nell’ambito politico; se la competenza degli «specialisti» è spesso illusoria, e in ogni caso limitata ad un campo molto ristretto, la credenza in questa competenza è tuttavia un fatto, e ci si può chiedere com’è possibile che tale credenza non svolga più alcun ruolo quando si tratta della carriera degli uomini politici, ove la più completa incompetenza raramente è un ostacolo. Ciò nonostante, se si riflette un po’, ci si accorge facilmente che non v’è niente di cui stupirsi, e che questo in definitiva non è che un risultato molto naturale della concezione «democratica», in virtù della quale il potere viene dal basso e si appoggia essenzialmente sulla maggioranza, il che ha, necessariamente, per corollario l’esclusione di ogni vera competenza, dal momento che la competenza è sempre una superiorità, quantomeno relativa, e può essere solo appannaggio di una minoranza.
A questo punto, alcune spiegazioni non saranno inutili per evidenziare, da una parte, i sofismi che si nascondono sotto l’idea «democratica», e dall’altra, i legami che collegano questa stessa idea a tutto l’insieme della mentalità moderna; peraltro, dato il punto di vista in cui ci poniamo, è quasi superfluo sottolineare che queste osservazioni saranno formulate al di fuori di tutte le questioni di partito e di tutte le contese politiche, alle quali non intendiamo mischiarci né da vicino né da lontano. Noi consideriamo queste cose in maniera assolutamente disinteressata, come potremmo fare per qualsiasi altro argomento di studio, cercando solo di renderci conto, il più chiaramente possibile, di ciò che vi è in fondo a tutto questo, condizione questa che, del resto, è quella necessaria e sufficiente perché si dissipino tutte le illusioni che i nostri contemporanei si fanno sull’argomento. Anche in questo caso si tratta veramente di «suggestione», come dicevamo a proposito di idee un po’ diverse, ma nondimeno connesse; e quando si sa che cos’è una suggestione, quando si è compreso come essa agisce, con ciò stesso la si neutralizza; contro cose del genere, un esame un po’ approfondito e puramente «obiettivo», come si dice oggigiorno nel gergo speciale improntato ai filosofi tedeschi, risulta essere ben altrimenti efficace che tutte le declamazioni sentimentali e tutte le polemiche di parte, le quali non provano alcunché e sono solo l’espressione di semplici differenze individuali.
L’argomento più decisivo contro la «democrazia» si riassume in poche parole: il superiore non può derivare dall’inferiore, perché il «più» non può provenire dal «meno»; ciò è di un rigore matematico assoluto, contro il quale non v’è nulla che possa prevalere. È importante notare che si tratta precisamente della stessa argomentazione che, applicata ad un altro ordine, vale anche contro il «materialismo»; e non v’è niente di fortuito in questa concordanza, dato che le due cose sono più strettamente solidali di quanto possa apparire in un primo momento. È fin troppo evidente che il popolo non può conferire un potere che non possiede; il vero potere può venire solo dall’alto, ed è per questo, lo diciamo di sfuggita, che esso non può essere legittimo che tramite la sanzione di qualcosa di superiore all’ordine sociale, vale a dire di un’autorità spirituale; diversamente non si può avere che una contraffazione del potere, uno stato di fatto che è ingiustificabile per mancanza di principio, e dove non può esserci che disordine e confusione. Questo capovolgimento di ogni gerarchia ha inizio nel momento in cui il potere temporale vuole rendersi indipendente dall’autorità spirituale, per poi subordinarla a sé pretendendo di usarla per dei fini politici; si tratta di una prima usurpazione che apre la via a tutte le altre; e si potrebbe anche dimostrare che, per esempio, la regalità francese, a partire il XIV secolo, ha lavorato inconsciamente alla preparazione della Rivoluzione, che doveva poi rovesciarla; forse un giorno avremo occasione di sviluppare come merita questo punto di vista, che per il momento ci limitiamo ad indicare in maniera molto sommaria[2].
Definire la «democrazia» come il sistema in cui il popolo si governa da sé, è una vera impossibilità, una cosa che non può avere neanche una semplice esistenza di fatto, sia nella nostra epoca che in qualunque altra; non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole: è contraddittorio ammettere che gli stessi uomini possano essere, ad un tempo, governanti e governati, poiché, per impiegare il linguaggio aristotelico, uno stesso essere non può essere «in atto» e «in potenza» nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto. Si tratta infatti di una relazione che presuppone necessariamente la presenza di due termini: non potrebbero esserci dei governati se non ci fossero dei governanti, foss’anche illegittimi e senz’altro diritto al potere che quello attribuitosi da loro stessi; ma, nel mondo moderno, la grande abilità dei dirigenti consiste nel far credere al popolo che si governi da sé; ed il popolo si lascia convincere tanto più facilmente per quanto più è adulato e, d’altronde, esso è incapace di riflettere quel tanto che è necessario per accorgersi di quanto, in tutto questo, vi è di impossibile. È per creare questa illusione che è stato inventato il «suffragio universale», in base al quale si suppone che sia l’opinione della maggioranza a fare le leggi, ma non ci si accorge che l’opinione è qualcosa che può essere manovrata e modificata molto facilmente, dato che, con l’aiuto delle suggestioni appropriate, è sempre possibile provocare delle correnti che si muovano in una qualsiasi direzione determinata; non ricordiamo più chi ha parlato di «fabbricare l’opinione», ma si tratta di una espressione totalmente esatta, anche se bisogna dire, peraltro, che non sono certo sempre i dirigenti apparenti ad avere in realtà a loro disposizione i mezzi necessari per ottenere un tale risultato. Quest’ultima considerazione permette certo di comprendere qual è il motivo per cui l’incompetenza dei politici più «in vista» sembra non avere che un’importanza molto relativa; ma, siccome non si tratta di smontare il meccanismo di ciò che si potrebbe chiamare la «macchina di governo», ci limiteremo a segnalare che questa stessa incompetenza offre il vantaggio di alimentare l’illusione di cui dicevamo prima: in effetti, è solo a queste condizioni che i politici in questione possono apparire come l’emanazione della maggioranza, essendo cioè a sua immagine, poiché la maggioranza, qualunque sia l’oggetto su cui è chiamata ad esprimersi, è sempre costituita da incompetenti, il cui numero è incomparabilmente più grande di quello degli uomini che sono in grado di pronunciarsi in piena cognizione di causa.
Questo ci porta immediatamente a dire in che cosa è essenzialmente erronea l’idea che la maggioranza debba fare le leggi; infatti, anche se quest’idea, per forza di cose, è soprattutto teorica e non corrisponde ad alcuna realtà effettiva, resta sempre da spiegare come essa abbia potuto radicarsi nello spirito moderno e quali siano le tendenze di quest’ultimo a cui essa corrisponde e che soddisfa almeno in apparenza. Il difetto più visibile è quello stesso che abbiamo appena indicato: il parere della maggioranza non può essere che l’espressione dell’incompetenza, sia che derivi dalla mancanza di intelligenza o dall’ignoranza pura e semplice; e a questo proposito si potrebbero far intervenire certe osservazioni di «psicologia collettiva», ricordando in particolare il fatto assai conosciuto che, in una folla, l’insieme delle reazioni mentali che si producono fra gli individui che la compongono, sfocia nella formazione di una sorta di risultante che non è neanche al livello della media, ma al livello degli elementi più bassi.
D’altra parte, è anche opportuno far notare che certi filosofi moderni, volendo trasporre nell’ordine intellettuale la teoria «democratica» che fa prevalere il parere della maggioranza, hanno fatto, di ciò che essi chiamano il «consenso universale», un preteso «criterio di verità»: ora, anche supponendo che possa esistere effettivamente una questione sulla quale tutti gli uomini fossero d’accordo, un tale accordo non proverebbe niente di per sé; inoltre, se questa unanimità esistesse veramente, cosa che è tanto più dubbia per quanto vi sono sempre degli uomini che non hanno alcuna opinione su una qualunque questione e che perfino non si sono mai posti il problema, sarebbe in ogni caso impossibile constatarla di fatto, di modo che, ciò che si invoca a favore di una opinione e si assume come indice della sua verità si riduce ad essere solamente il consenso della maggioranza, addirittura limitata ad un ambito necessariamente molto ristretto nello spazio e nel tempo. In questo dominio appare ancora più chiaramente come la teoria manchi di base, poiché qui è più facile sottrarsi all’influenza del sentimento, il quale invece entra in giuoco quasi inevitabilmente quando si tratta del dominio politico; ed appare anche chiaro che è questa influenza che costituisce uno dei principali ostacoli alla comprensione di certe cose, perfino in coloro che peraltro avrebbero una capacità intellettuale più ampiamente sufficiente per pervenire facilmente a questa comprensione; gli impulsi emotivi impediscono la riflessione, ed una delle più volgari abilità dei politici consiste nel trar partito da questa incompatibilità. Ma volendo approfondire meglio la questione, ci si può chiedere: che cos’è esattamente questa legge della maggioranza invocata dai governanti moderni e da cui essi pretendono di trarre la loro sola giustificazione? È, molto semplicemente, la legge della materia e della forza bruta, la stessa legge in virtù della quale una massa trascinata dal proprio peso schiaccia tutto quello che incontra al suo passaggio; ed è in questo che si trova precisamente il punto di giunzione fra la concezione «democratica» e il «materialismo», ed è anche questo che permette che questa stessa concezione sia strettamente legata alla mentalità attuale. Si tratta, insomma, del completo capovolgimento dell’ordine normale, poiché viene proclamata la supremazia della molteplicità come tale, supremazia che, di fatto, esiste solo nel mondo materiale[3]; al contrario, nel mondo spirituale, e più semplicemente ancora nell’ordine universale, è l’unità che sta in cima alla gerarchia, poiché essa è il principio da cui procede ogni molteplicità[4]; ma, allorché il principio viene negato o è perduto di vista, non resta altro che la pura molteplicità, che si identifica con la stessa materia. D’altra parte, l’allusione che abbiamo appena fatto alla pesantezza, implica più di un semplice paragone, poiché la pesantezza rappresenta effettivamente, nel dominio delle forze fisiche intese nel senso più ordinario del termine, la tendenza discendente e compressiva, che comporta per l’essere una limitazione sempre più stretta e, al tempo stesso, si muove verso la molteplicità, figurata qui da una densità sempre più grande[5]; e questa tendenza è quella stessa che segna la direzione secondo la quale si è sviluppata l’attività umana dall’inizio dell’epoca moderna. Inoltre, è il caso di notare che la materia, in forza del suo potere di divisione e al tempo stesso di limitazione, è quello che la dottrina scolastica chiama il «principio di individuazione», il che riallaccia le considerazioni esposte adesso con quanto abbiamo detto precedentemente a proposito dell’individualismo: e si potrebbe dire che questa di cui si tratta è anche la tendenza «individualizzante», quella in base alla quale si effettua ciò che la tradizione giudeo-cristiana designa come la «caduta» degli esseri che si sono separati dall’unità originaria[6], La molteplicità, considerata al di fuori del suo principio, e quindi in modo da non poter più essere ricondotta all’unità, è, nell’ordine sociale, la collettività concepita come se fosse semplicemente la somma aritmetica degli individui che la compongono; e in effetti è così, dal momento che non è più collegata ad alcun principio superiore agli individui; sotto quest’aspetto, la legge della collettività è proprio quella legge della maggioranza su cui si basa l’idea «democratica».
A questo punto occorre fermarci un istante per dissipare una possibile confusione: parlando dell’individualismo moderno, noi abbiamo considerato quasi esclusivamente le sue manifestazioni nell’ordine intellettuale; si potrebbe allora pensare che, per quanto attiene all’ordine sociale, le cose stiano diversamente. In effetti, se si assumesse il termine «individualismo» secondo la sua accezione più ristretta, si potrebbe essere tentati di opporre la collettività all’individuo e di pensare che dei fatti come il ruolo sempre più invadente dello Stato e la crescente complessità delle istituzioni sociali, siano indice di una tendenza contraria all’individualismo. In realtà non è così, perché la collettività, essendo solo la somma degli individui, non può essere opposta a questi ultimi, al pari dello stesso Stato concepito alla maniera moderna, e cioè come semplice rappresentanza della massa, in cui non si riflette alcun principio superiore; ora, è precisamente nella negazione di ogni principio sopra-individuale che consiste veramente l’individualismo come noi lo abbiamo definito. Dunque, se nel dominio sociale vi sono dei conflitti fra tendenze diverse che appartengono tutte allo spirito moderno, tali conflitti non interessano l’individualismo da una parte e qualcos’altro dall’altra, ma riguardano semplicemente le molteplici varietà di cui è suscettibile l’individualismo stesso; ed è facile rendersi conto che, in assenza di ogni principio capace di unificare realmente la molteplicità, conflitti come questi devono essere molto più numerosi e più gravi nella nostra epoca di quanto non lo siano mai stati, poiché chi dice individualismo dice necessariamente divisione, e questa divisione, con lo stato caotico che essa genera, è la conseguenza fatale di una civiltà tutta materiale, in quanto che è la materia stessa ad essere propriamente la radice della divisione e della molteplicità.
Detto questo, bisogna ancora insistere su una conseguenza immediata dell’idea «democratica», che consiste nella negazione dell’élite intesa nella sua sola accezione legittima; non a caso «democrazia» si oppone ad «aristocrazia», visto che quest’ultima designa precisamente, almeno in base al suo significato etimologico, il potere dell’élite. Quest’ultima, in qualche modo per definizione, non può essere che la minoranza, ed il suo potere, o piuttosto la sua autorità, la quale deriva solo dalla sua superiorità intellettuale, non ha niente in comune con la forza numerica su cui poggia la «democrazia», la cui caratteristica essenziale è quella di sacrificare la minoranza alla maggioranza, ed anche, per ciò stesso, come abbiamo detto in precedenza, la qualità alla quantità, dunque l’élite alla massa. Ne consegue che il ruolo direttivo di una vera élite e la sua stessa esistenza, visto che essa svolge necessariamente un tale ruolo per il semplice fatto che esiste, sono radicalmente incompatibili con la «democrazia», la quale è intimamente legata alla concezione «egualitaria» e cioè alla negazione di ogni gerarchia; la base stessa dell’idea «democratica» è che un individuo qualunque ne vale un altro, in quanto sono uguali numericamente e nonostante possano esserlo solo numericamente.
Una vera élite, lo abbiamo già detto, non può essere che intellettuale; ed è per questo che la «democrazia» può instaurarsi solo laddove non esiste più la vera intellettualità, il che corrisponde perfettamente al caso del mondo moderno. Solo che, visto che l’uguaglianza di fatto è impossibile e visto che praticamente non si possono sopprimere tutte le differenze fra gli uomini, a dispetto di tutti gli sforzi di livellamento, si finisce, per un curioso sillogismo, con l’inventare delle false élite, peraltro molteplici, che pretendono di sostituirsi alla sola élite reale; e queste false élite sono basate sulla considerazione di superiorità qualsiasi, eminentemente relative e contingenti, e sempre d’ordine puramente materiale. Ci se ne può accorgere facilmente osservando che la distinzione sociale che vale di più, nel presente stato di cose, è quella che si fonda sulla ricchezza, vale a dire su una superiorità tutta esteriore e d’ordine esclusivamente quantitativo, la sola insomma che sia conciliabile con la «democrazia», poiché entrambe derivano dallo stesso punto di vista. Del resto, possiamo aggiungere che coloro stessi che si atteggiano ad avversari di questo stato di cose, non facendo intervenire neanche loro alcun principio di ordine superiore, sono incapaci di rimediare efficacemente ad un tale disordine, se addirittura non rischiano di aggravarlo ulteriormente spingendosi sempre più lontano nella stessa direzione; la lotta è solamente fra diverse varietà della «democrazia», che accentuano più o meno la tendenza «egualitaria», esattamente come accade, lo dicevamo prima, fra le varietà dell’«individualismo», tutte cose queste che in realtà sono una cosa sola.
Queste poche riflessioni ci sembrano sufficienti per caratterizzare lo stato sociale del mondo contemporaneo e per mostrare, al tempo stesso, che in questo ambito, come in tutti gli altri, non può esistere che un solo mezzo per venir fuori dal caos: la restaurazione dell’intellettualità e quindi la ricostituzione di un’élite, che in Occidente, attualmente, può essere considerata come inesistente, visto che non si può dare questo nome ad alcuni elementi isolati e senza coesione, i quali rappresentano in qualche modo solo delle possibilità non sviluppate. In effetti, questi elementi hanno, in genere, solo delle tendenze o delle aspirazioni, che li inducono indubbiamente a reagire contro lo spirito moderno, ma senza che la loro influenza possa esercitarsi in maniera effettiva; ciò che manca loro è la vera conoscenza, i dati tradizionali, che non si possono improvvisare, e ai quali un’intelligenza lasciata a se stessa, soprattutto in circostanze tanto sfavorevoli sotto molti aspetti, non può supplire che in maniera assai imperfetta e in misura assai debole. Si hanno dunque degli sforzi dispersi e che spesso si smarriscono, mancando di principi e di direzione dottrinale: si potrebbe dire che il mondo moderno si difende con la sua propria dispersione, alla quale i suoi stessi avversari non riescono a sottrarsi. E sarà così fintanto che costoro si atterranno al livello «profano», in cui lo spirito moderno ha un evidente vantaggio, visto che quello è il suo dominio proprio ed esclusivo; d’altronde, se costoro vi si attengono è perché tale spirito esercita ancora su di essi, malgrado tutto, una presa molto forte. È per questo che molte persone, pur animate da una incontestabile buona volontà, sono incapaci di comprendere che occorre necessariamente incominciare dai principi, e si ostinano a sperperare le loro forze in questo o in quel dominio relativo, sociale o di altro genere, in cui non può essere compiuto nulla di reale e di durevole viste le condizioni attuali. La vera élite, al contrario, non dovrebbe intervenire direttamente in questi domini né dovrebbe lasciarsi coinvolgere nell’azione esteriore; essa dirigerebbe tutto tramite un’influenza impercettibile per il volgo, e tanto più profonda per quanto meno apparente. Se si pensa alla potenza delle suggestioni di cui parlavamo prima, che fra l’altro non suppongono alcuna vera intellettualità, si può concepire che cosa sarebbe, a maggior ragione, la potenza di un’influenza che si esercitasse in maniera ancora più nascosta in ragione della sua natura e che avesse come fonte la pura intellettualità; potenza che, peraltro, non essendo sminuita dalla divisione inerente alla molteplicità e dalla debolezza che comporta tutto ciò che è menzogna o illusione, sarebbe intensificata per la concentrazione nell’unità principiale e si identificherebbe con la forza stessa della verità.

[1] Ciò che gli uomini chiamano il caso è semplicemente la loro ignoranza delle cause; e se, dicendo che qualcosa accade per caso, si pretendesse di dire che non vi è alcuna causa, si tratterebbe di una supposizione di per sé contraddittoria. 
[2] Oltre ai cenni fatti in altri suoi studi, René Guénon si è dilungato su questa questione in Autorità Spirituale e Potere Temporale (n.d.t.). 
[3] È sufficiente leggere San Tommaso d’Aquino per vedere che «numerus stat ex parte materiæ». 
[4] Da un ordine di realtà all’altro, l’analogia, qui come in tutti i casi simili, si applica strettamente in senso inverso. 
[5] Questa tendenza è quella che la dottrina indù chiama tamas, e che assimila all’ignoranza e all’oscurità: si noterà che, secondo quanto abbiamo detto prima sull’applicazione dell’analogia, la compressione o condensazione di cui si tratta è all’opposto della concentrazione considerata nell’ordine spirituale o intellettuale, di modo che, per singolare che questo possa apparire di primo acchito, tale compressione è in realtà correlativa della divisione e della dispersione nella molteplicità. D’altronde, lo stesso vale per l’uniformità realizzata dal basso e cioè, secondo la concezione «egualitaria», al livello più infimo, la quale è all’estremo opposto dell’unità superiore e principiale. 
[6] È per questo che Dante pone il soggiorno simbolico di Lucifero al centro della terra, vale a dire nel punto in cui convergono da tutte le parti le forze della pesantezza; e da questo punto di vista si tratta dell’inverso del centro di attrazione spirituale o «celeste», che è simboleggiato dal sole nella maggior parte delle dottrine tradizionali.

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