"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 22 maggio 2014

Miguel Asin Palacios, Un precursore ispano-musulmano di San Giovanni della Croce


Miguel Asin Palacios
Un precursore ispano-musulmano di San Giovanni della Croce[1]

Introduzione

Ho segnalato in uno studio recente[2] l’importanza che riveste per la complessiva storia della mistica la disposizione, profondamente cristiana, alla rinuncia ai carismi adottata dai sufi ispano-musulmani della scuola shâdilita, e specialmente da Ibn ‘Abbâd di Ronda. In quello studio suggerivo anche la singolare coincidenza che si riscontra tra tale attitudine e quella della scuola carmelitana, in modo particolare in San Giovanni della Croce.[3]
L’origine comune di entrambe le disposizioni va cercata, evidentemente, nella dottrina paolina, professata e praticata dai Padri dell’eremo e dal monacato cristiano orientale, così come credo di aver dimostrato nello studio appena menzionato. La sua propagazione nell’islâm è molto probabilmente dovuta per quanto riguarda l’oriente soprattutto al sufi persiano Hallâj; ma essa appare precocemente anche nell’islâm occidentale, sia africano che spagnolo. Un sufi di Almeria, Abû-l-‘Abbâs ibn al-‘Arîf,[4] l’adotta nel XI secolo come fondamento dell’intera mistica. Eredi di questa idea fondamentale sono altri due grandi contemplativi: AbûMadyan di Siviglia e Ibn ‘Arabî di Mursia, nel XII secolo.
E si propaga rapidamente, grazie al largo magistero di entrambi, non solo nella Spagna islamica, ma pure in nord Africa. Un mistico rifegno,[5] ‘Abd as-Sallâm ibn Mashîsh, ancor oggi venerato nel Marocco spagnolo, la trasmise al suo discepolo Abû-l-Hasan ash-Shâdilî, fondatore della scuola nota con il suo stesso patronimico,[6] shadiliyya, che perdura sino ai nostri giorni, dopo aver prodotto nel corso di due secoli, dal XIII al XV, un cospicuo numero di sottili pensatori che districarono e sistematizzarono le tesi fondamentali implicate dalla rinuncia paolina.[7] Due di loro meritano singolare menzione: Ibn ‘Atâ’ Allâh di Alessandria (m. 1309 d.C.) e Ibn ‘Abbâd di Ronda (m. 1394 d.C.). Quest’ultimo, tanto prossimo geograficamente e cronologicamente alla scuola carmelitana, può offrire, dunque, qualche maggiore interesse nello studio del nostro tema, in quanto ‘‘tipo analogo’’, sotto l’aspetto dottrinale, di San Giovanni della Croce. Con il solo proposito di un primo vaglio di materia tanto abbondante e complessa, ci limiteremo qui a esporre alcuni dei suoi pensieri più tipici sul tema della rinuncia ai carismi e quello parallelo dell’amore dei patimenti, utilizzando, come fonte più ricca, la sua opera intitolata Commento alle “Sentenze di Ibn ‘Atâ’ Allâh di Alessandria’’.[8] Ma affinché la dottrina di Ibn ‘Abbâd possa essere apprezzata in tutto il suo valore, converà conoscere dapprima i caratteri più salienti della sua vita, che riflettono e concretizzano nella realtà materiale le fondamentali norme di austerità e abnegazione a cui si ispirò quella dottrina.[9]

1. Vita di Ibn ‘Abbâd di Ronda

Abû‘Abd Allâh Muhammad Ibn ‘Abbâd nacque a Ronda[10] nell’anno 733 dell’égira, corrispondente al 1332 della nostra era. Città inespugnabile, protetta tra i dirupi della serranía[11] che da lei prende nome, Ronda è permansa sottomessa al potere dell’islâm sino alla fine del XV secolo: solo nel 1495, alla vigilia della resa di Granada, capitolò definitivamente di fronte a Ferdinando il Cattolico, dopo una precedente ma breve occupazione dei cristiani (nel 1431), che però l’avevano ben presto perduta. Piazzeforti situate più a sud, come Tarifa, Almeria, Gibilterra, Algeciras, erano già cadute, molto tempo prima, nelle mani dei cristiani, che solo un secolo più tardi riuscirono a guadagnare l’enclave islamico rappresentato da Ronda, refrattario a una stabile riconquista per la sua collocazione geografica.
Protetta per di più dai sultani Merinidi del Marocco dal 1332 e dai re di Granada dal 1349, la sua vita religiosa si era potuta sviluppare in un ambiente di relativa pace durante il periodo della nascita ed educazione di Ibn ‘Abbâd. Egli apparteneva ad una delle più nobili famiglie della città, ricordando peraltro il suo nome quello della famosa dinastia della tâ’ifa[12] ‘abbâdita di Siviglia. Al prestigio sociale ed alla ricchezza, la sua famiglia univa, come segno distintivo, una cultura religiosa e lo spirito compassionevole più puro: suo padre, Abû Ishaq Ibrâhîm, eminente giureconsulto ed eloquentissimo oratore sacro, ricopriva il ruolo di predicatore nella moschea; uno dei suoi zii, ‘Abd Allah al-Fârisî, era il qadî[13] della città. Nel seno di quella casa, che possiamo ben definire devota, Ibn ‘Abbâd ricevette dunque una formazione spirituale assai accurata. In effetti i biografi danno molta considerazione all’ambiente di purezza, castità e continenza nel quale egli crebbe e il particolare rigore con cui suo padre e suo zio provvidero alla sua istruzione primaria: senza affidarla a maestri retribuiti, il primo si incaricò di insegnargli il Corano, base di qualsiasi progetto pedagogico nell’islâm e che Ibn ‘Abbâd bambino apprese quindi a memoria alla tenera età di sette anni; lo zio ‘Abd Allâh prese invece in carico l’insegnamento degli elementi grammaticali della lingua araba. Altri maestri badarono poi alla sua educazione letteraria, teologica e giuridica, sia a Ronda che in differenti scuole
del nord Africa, frequentate dal giovane studente negli anni successivi. Fes, Tilimsen, Salé e Tangeri furono, secondo i suoi biografi, le località in cui a tal fine risiedé, per un tempo più o meno largo, assistendo alle spiegazioni dei più accreditati dottori e leggendo sotto il loro magistero le opere più autorizzate di ogni materia.
Allo stesso tempo si accresceva la sua formazione spirituale, sotto la guida, come novizio, di differenti sufi. La vita conventuale non ha trovato nell’islâm occidentale il radicamento che trovò in oriente. I maestri di spirito accoglievano, nelle loro stesse case private o nelle moschee e nelle quali tenevano le loro lezioni pubbliche quanti mostravano vocazione sincera di consacrarsi ad una vita di perfezione. Il giovane Ibn ‘Abbâd adottò, naturalmente, questo stesso metodo d’iniziazione, complementare alla sua formazione spirituale nell’ambiente domestico. Non possediamo dati precisi di questi primi passi del suo noviziato. Solo abbiamo il titolo di una delle opere che contribuì in modo sostanziale al suo apprendistato: il Qût al-qulûb[14] di Abû Tâlib al-Makkî, che è una summa di ascetica e mistica, famosa in tutto il mondo islamico e utilizzata come manuale di consultazione piuttosto che come strumento d’iniziazione elementare.[15] È tuttavia da immaginare che i suoi principali maestri fossero i libri, visto che al loro commento e studio consacrò più tardi ogni suo sforzo. I suoi biografi non ci informano nemmeno riguardo gli episodi più salienti della sua vita esteriore e pubblica. Certo consta che mai più fece ritorno nella sua patria. Dopo una sosta di vari anni a Salé, si trasferì definitivamente a Fes per ricoprire l’incarico di imâm e khatîb, ovvero di rettore e predicatore della moschea maggiore detta di Qarawiyyin. Il sultano Abû-l-‘Abbâs, che da poco aveva preso pieno possesso del trono di Fes, durante il suo regno colmò di onori Ibn ‘Abbâd, mantenendolo in tale alto posto ecclesiastico sino alla sua morte, avvenuta nell’anno 792 dell’égira (1389 d.C.), all’età di cinquantanove anni. Ne erano trascorsi quindici da quando il sultano lo aveva nominato suo predicatore ufficiale, e nel frattempo la corte ed il popolo avevano potuto apprezzare da vicino meriti e virtù dell’asceta e la devozione religiosa delle sue omelie. È per questo che la cerimonia del suo interramento rivestì, secondo la testimonianza dei suoi contemporanei raccolta dai biografi, caratteri di solenne manifestazione di dolore popolare. La corte, con il sultano alla testa e il popolo in massa, accompagnarono il cadavere sino al cimitero, rimanendo deserti di gente i due quartieri, vecchio e nuovo, che già allora, come oggi, costituivano la città. Il cimitero in cui venne seppellito era situato, come oggi, nella collina adiacente alla porta di Fes vecchia, chiamata oggi Bâb Ftûh.[16] Il popolo, mosso dalla venerazione che aveva per Ibn ‘Abbâd, stava addirittura per abbattere il feretro sul quale era stato trasportato il suo cadavere per strapparne delle reliquie. I poeti composero versi sinceri in suo onore. Una collezione completa dei sermoni e delle omelie che aveva recitato con religioso zelo si è diffusa attraverso i secoli per tutto il Marocco, e si è continuato a recitarla durante alcune solenni festività. Al-Maqqarî, che riferisce il fatto, assicura d’aver udito, durante la festa di natività di Maometto,[17] il sermone di Ibn ‘Abbâd corrispondente a quel giorno, che venne pronunciato alla presenza del sultano nella moschea maggiore di Murrâkush nell’anno 1010 dell’égira (1601 d.C.). Perfino la casa in cui Ibn ‘Abbâd visse, annessa alla moschea maggiore di Fes, conservò il suo nome sino al XVII secolo.
L’unanime plebiscito dei suoi contemporanei lo elevò a santo, e l’opinione dei dotti lo volle, dopo morto, mistico senza pari del suo secolo. Tutti gli agiografi musulmani coincidono in questo giudizio, per la cui dimostrazione danno abbondanti e concrete testimonianze che lo dipingono con i tratti caratteristici della perfezione spirituale. Trascegliamone alcuni tra i più salienti, che fanno riferimento al suo austero e sobrio ascetismo, ai suoi stati e virtù mistiche e alle sue doti singolari di direttore d’anime.
La castità anzitutto, la virtù più meritevole in una religione come l’islâm, che non esige il celibato per la professione monacale. Ibn ‘Abbâd accettò volontariamente il celibato, pur vivendo nel mondo e nel mezzo dello splendore cortigiano: non contrasse mai nozze, e nemmeno si permise il lusso, lecito nell’islâm, di schiave concubine. In una delle sue lettere confessava che per eccezionale privilegio di Dio perfino mancava dell’istinto sessuale, irriflesso e quasi irreprimibile, di guardare le donne. La sua mortificazione della sensualità era talmente assoluta, che i suoi biografi segnalano, come unica eccezione, l’affezione che sentiva per gli aromi. Tutti gli altri appetiti li aveva assoggettati.
L’umiltà più sincera si rivelava in tratti molto eloquenti, refrattari ad ogni sospetto di ipocrisia: conciliando le esigenze sociali del suo alto incarico ecclesiastico con i suoi aneliti di umiltà ed ascetismo, viveva solo nella sua casa, senza alcun servo per il suo servizio, badando lui stesso a tutte le incombenze domestiche, vestito con l’abito monacale islamico, la muraqqa‘a, fatta di cenci vecchi e rammendati, che poi copriva con una tunica verde o bianca, quando doveva andare in strada o in moschea, per rispettare così la decenza imposta dalla sua funzione di rettore o religioso e occultare nel medesimo tempo al popolo l’austerità della sua vita interiore. Se qualcuno, preso dal rispetto e dalla venerazione che meritavano le sue virtù e dalla viva fiducia nel suo valore agli occhi di Dio [de la viva fe en su gran valimiento para con Dios] gli chiedeva che lo tenesse presente nelle sue orazioni, le sue guance si arrossavano, turbato di essere tenuto per santo.
Questa virtù era, a detta dei biografi, la sua caratteristica più peculiare: il timore [verguenza] di Dio. Do qui i termini che testualmente impiega uno dei suoi commentatori:

Alla presenza di Dio, nel valutarne la maestà, Ibn ‘Abbâd si considerava meno importante del più piccolo degli insetti;[18] e non riteneva di possedere alcun merito che lo elevasse sopra una qualsiasi delle cose create, oppresso com’era dal timore reverenziale che sentiva al cospetto della grandezza e sublimità del Re della gloria, dei cui benefici si giudicava indegno.

L’abnegazione della propria volontà, l’assoluta consegna nelle mani di Dio, come lo schiavo obbediente e sottomesso al suo signore, generava nella sua anima uno stato di santa indifferenza nei confronti di tutte le cose create. La lode ed il vituperio degli uomini gli erano egualmente indifferenti.
Nulla e nessuno riusciva ad alterare la sua equanimità. L’espressione teresiana «nada te turbe», «sólo Dios basta», pareva ispirare la sua condotta e riflettersi nel suo carattere. Amabile, pacato, dolce e affettuoso con tutti, una sola eventualità lo turbava: il timore che qualcuno si dimenticasse di Dio in sua presenza, soprattutto se questa dimenticanza era conseguente alle attenzioni prestate a lui nel rapporto quotidiano.
La sua amorevolezza nei confronti del prossimo era esemplare: guardava tutti, alti e bassi, giusti e peccatori, con occhi di misericordia e di compassionevole premura; a tutti egualmente dispensava i suoi consigli di direzione spirituale, pur non trascurando la considerazione dovuta al rango sociale di ciascuno; in tutti non vedeva altro che le loro anime, oggetto della volontà di Dio, senza personalismi. Ma questa equanimità di maniere con tutti rompeva a volte il suo equilibrio: ogniqualvolta gli rivolgevano segni evidenti di ossequio, ogni qualvolta lo lodavano per la sua santità e virtù, quando, soprattutto, i principi o i cortigiani si accalcavano al suo passaggio per mostrargli il loro rispetto e venerazione, Ibn ‘Abbâd poneva ogni impegno
nel mostrare il suo disgusto, come dando ad intendere che l’adulazione non gli importava un fico e che unicamente Dio era degno di lode e venerazione.
In cambio, l’innocenza dei bambini era per lui un incanto. Uno dei suoi biografi, che da bambino lo conobbe, ci ha conservato un racconto graziosissimo di questo divertente lato della sua personalità. Dice così Muhammad ibn as-Sakkâk:[19]

Una delle misteriose doti di questo maestro dello spirito era quella di guadagnarsi la simpatia dei cuori dei piccoli, assai degni di tenerezza, ai quali Dio ispirava tanto amore per lui, che spontaneamente accorrevano a studiare alla sua scuola.
Lo amavano più dei loro stessi genitori. Aspettavano che uscisse di casa per andare alla moschea alle ore dell’orazione, in numero incalcolabile, convenendo in gruppi da ogni quartiere e perfino dalle scuole più appartate della città, attratti solo dal desiderio di vedere da vicino il suo volto benedetto e baciargli la mano. Avevo allora da sette a dieci anni ed ero uno di quelli maggiormente catturati [prendados] dal suo affetto. Non avevo mai provato un attaccamento verso personao cosa simile a quello che Dio mi aveva ispirato per il maestro, senza che io sapessi a che causa obbediva, poiché nessuno mi aveva spiegato che dovevo amarlo e nemmeno me lo aveva raccomandato. Se mancavo, sentiva la mia mancanza e si preoccupava delle ragioni della mia assenza. Un giorno non ero andato a lezione, e il giorno dopo arrivai all’ora in cui egli usciva di casa per andare all’orazione serale. La biblioteca era già piena di studenti; ma quando mi vide si trattenne sino a che lo raggiunsi. A quel tempo ero un moccioso magro e piccoletto, che si strascinava in giro. Il maestro inclinò affettuosamente la testa verso me e mi chiese: «Che cosa ti è capitato? sei stato ammalato?». E restò così a lungo in piedi parlando con me, mentre io rimanevo silenzioso senza sapere cosa dirgli, perché mancavo ancora del discernimento indispensabile per mantenere una conversazione con chiunque. Varie volte entrai a casa sua e alcune pure mangiai dal suo piatto.
Le sue doti di direttore di anime furono eccezionali: oratore omiletico, eloquente e toccante; autore di libri ascetico-mistici, sorprendenti per la grazia del loro stile, limpido e allo stesso tempo scelto; profondo e sottile conoscitore dei difetti e delle sofferenze spirituali corrispondenti agli stati, alle dimore ed ai carismi, impiegò principalmente la sua parola e la sua penna nei lavori [trabajos] della vita religiosa. Già abbiamo menzionato l’alto pregio in cui furono tenuti i suoi sermoni, più che come opere [piezas] di retorica, quali documenti per la formazione spirituale del popolo, giacché ancora secoli dopo la sua morte si leggevano pubblicamente nelle moschee di tutto il nord Africa, durante le funzioni solenni, nella cui liturgia si inseriva questo esercizio di lettura spirituale, estraneo ai riti tradizionali. È questa una testimonianza molto eloquente
della fede che tutti riponevano nell’efficacia della sua parola per la conversione delle anime.
Ma non limitò il suo lavoro apostolico a tale oratoria missionaria, consacrata al popolo. Il suo libro principale, il già citato Commento alle ‘‘Sentenzedi Ibn ‘Atâ’ Allâh di Alessandria’’, può essere senza esagerazione considerato unminuziosomanuale di dottrina ascetica emistica, utile per i novizi e per chi è già instradato nel cammino della perfezione o che già ha raggiunto le vette della contemplazione. È impossibile analizzare metodicamente il suo contenuto, per la sua forma di commento a sentenze formulate senza criterio di coerenza sistematica; e tuttavia nei due tomi che lo costituiscono non c’è tema che non sia d’interesse, da quelli riguardanti la purificazione preliminare del novizio, sino a quelli riguardanti l’amore divino, l’estasi ed i carismi dei perfetti.
La sua natura di commento di una meditazione estranea non gli toglie, comunque, spontaneità e personalità. Ibn ‘Abbâd non è aggiustatore di compendi d’ascetica, fatti con scampoli di altri libri, senza che brilli il ben che minimo riflesso della vita interiore dell’autore. Al contrario, ad ogni momento si offrono osservazioni e avvertimenti tanto accorti, che non si può non attribuirli a esperienza personalmente vissuta, fatta sui fenomeni della coscienza propria o altrui. Come diceva di lui uno dei suoi discepoli, Ibn ‘Abbâd impersonò pienamente nel suo animo tutte le virtù, tutti gli stati e gradi di perfezione dei grandi santi. I suoi atti, per questo motivo, superavano di molto le sue parole, perché queste, pur essendo colme di dolcezza e luce spirituale, potevano solo suggerire all’animo dei loro lettori la sublime altezza della rettitudine morale che raggiungevano i suoi atti.
Disgraziatamente non abbondano tra i suoi biografi i dati relativi ai doni carismatici di Ibn ‘Abbâd. Ci è stato conservato solamente un caso isolato di levitazione o ratto estatico, difficile da interpretare a causa della sobrietà con cui è descritto: una notte esce di casa per passare alla moschea a pregare, e il testimone presenziale che riferisce l’accaduto lo vede attraversare il patio in volo, seduto con le gambe incrociate fino a che non penetra nel recinto della moschea e giunge al mihrâb, ossia l’oratorio, nella stessa attitudine estatica. Ma non è da stupirsi che scarseggino le notizie di questo carattere, data l’attitudine di rinuncia ai carismi, adottata in generale dai mistici della scuola shâdilita, e che professava Ibn ‘Abbâd in forma speciale, tanto che, come vedremo, raccomanda con impegno di tenere ben occulti i favori con cui Dio differenzia le anime.
Da ultimo va trattato, facendone risaltare l’eccezionalità, chissà senza precedenti nell’islâm, un aspetto curiosissimo della vita apostolica di Ibn ‘Abbâd: la sua corrispondenza epistolare come direttore di coscienze. Oltre ai novizi o aspiranti ai quali dirigeva personalmente, sia in gruppo, durante le lezioni di ascetica che impartiva ogni venerdì nella moschea, terminate le funzioni, sia privatamente a casa, Ibn ‘Abbâd, anticipando di più di un secoloil maestro Giovanni d’Avila, anch’egli predicatore popolare e direttore di anime, raccolse in un epistolario le lettere che nel corso di svariati anni aveva indirizzato a diversi corrispondenti per risolvergli casi di coscienza e dubbi sottili, concernenti non tanto la morale ordinaria del semplice fedele, quanto i patimenti di coloro che aspiravano alla perfezione.
La Biblioteca dell’Escorial conserva un esemplare manoscritto di questo epistolario, accompagnato dalle opere di Ibn ‘Abbâd.[20] Contiene solo quindici carte, i cui destinatari non sempre si citano nominalmente, come nemmeno la destinazione; ma alcune sono dirette a corrispondenti residenti fuori dal Marocco, come la 15a, il cui destinatario viveva a Játiva, città in mano dei cristiani da più di un secolo, essendo stata conquistata da Giacomo I d’Aragona, detto il Conquistatore, verso il 1244.
L’importanza di questo Epistolario richiederebbe uno studio particolareggiato che qui non possiamo fare; ma converrà comunque isolare alcuni dei temi trattati in alcune lettere, per mettere in rilievo il suo carattere ascetico-mistico. L’epistola 1a (fos 183v-187v) risponde a una consulenza che gli è stata richiesta, relativa alla dimora mistica del timore di Dio, tale come questa si spiega nel libro di Abû Tâlib di Mecca, Qût al-qulûb. La 2a (f. 187v-193v) tratta della cura di certi difetti e sofferenze spirituali che soffriva un religioso, il cui nome è taciuto. Nella 5a (fos 203v-214v) dà avvertimenti atti a conseguire che l’anima sensitiva si inclini grata a sopportare le avversità e a rifuggire da tutto ciò che la può compiacere. Al f. 211 appaiono curiose note sul pericolo della familiarità con le donne, ed è qui che Ibn ‘Abbâd confessa al suo corrispondente che Dio gli ha concesso la grazia di non sentire alcuna inclinazione a guardarle, nemmeno per mera curiosità. L’epistola 6a (f. 214v-215) analizza i gradi progressivi della pazienza e del compiacimento per il favore dinnanzi alle tribolazioni con cui Dio prova l’anima. Nella 7a (fos 215v-224v) esamina gli atti e stati psicologici indispensabili per giungere alla dimora della penitenza. La 8a (fos 218v-224v) è uno studio sottile dell’angustia spirituale che uno dei suoi corrispondenti sperimentava sentendosi dominato da stati d’animo che, senza essere peccaminosi, lo disgustavano, e considerandosi, ciò nonostante, incapace di sostituirli con altri stati di coscienza a suo giudizio più perfetti.
La 13a (f. 228v-229) risponde alla consultazione di un devoto che non riesce a dissipare la sua afflizione perché la necessità di guadagnarsi la vita gli impedisce di consacrarsi alla perfezione. La 14a (f. 229-230v) è una somma di avvisi indispensabili ad ogni novizio. La 15a, infine (f. 230v-235v), pone e risolve un quesito molto discusso a quel tempo tra gli asceti dell’islâm spagnolo ed africano e che Ibn ‘Abbâd formula in questi termini: «Il cammino ascetico-mistico dei sufi lo si deve percorrere senza altro ausilio che la lettura dei libri devoti, o è indispensabile la direzione di un maestro di spirito?».
Senza scendere a maggiori dettagli, credo che la figura di Ibn ‘Abbâd risulti così abbastanza descritta, sotto le differenti prospettive spirituali che la caratterizzano: come scrittore ascetico, come oratore omiletico e come direttore di coscienza. Resta tuttavia un altro aspetto della sua figura, che non posso nemmeno sfiorare: le sue doti di poeta mistico.
Uno dei suoi biografi parla di una collezione di ottocento versi in metro rajaz, che disgraziatamente sembra essere andato perduto o che per lo meno ignoro se si conservi manoscritta in qualche biblioteca europea od orientale. Merita, tuttavia, di essere riferito questo tratto della sua fisionomia, che viene ad rafforzare il paragone tra Ibn ‘Abbâd e San Giovanni della Croce.

2. Dottrina della rinuncia ai carismi

Descritta la vita dell’autore, veniamo dunque all’esposizione della sua dottrina della rinuncia. Anzitutto, questa dottrina ci si offre come patrimonio collettivo della scuola shâdilita. In molte delle sentenze di Ibn ‘Atâ’ Allâh commentate da Ibn ‘Abbâd, questi si sforza di chiarire, dimostrandolo testualmente, che l’autore segue con ogni fedeltà la dottrina mistica dei suoi maestri, in particolare del fondatore della scuola, Abû-l-Hasan ash-Shâdilî ed il suo discepolo, Abû-l-‘Abbâs di Mursia.[21] E non si limita solamente all’opera commentata di Ibn ‘Atâ’ Allâh, ma ricorre anche ai testi di altre sue due opere: il Kitâb lata’if al-minan e il Kitâb at-tanwîr.[22] È chiaro che la maggior parte delle auctoritates addotte a documentare e giustificare i suoi commenti non sono di autori shâdiliti, ed al contrario ad ogni momento apporta a conferma sentenze ed esempi tratti da altri sufi orientali o spagnoli, anche senza mancare, per questo, di segnalare l’originalità dei pensieri tipici della scuola shâdilita o delle sue forme di espressione.
La dottrina della rinuncia ha soggiacente una metafisica, il cui principio fondamentale è il seguente: Dio è inaccessibile alla creatura; dall’assoluta trascendenza dell’Essere infinito, spogliato di ogni analogia con l’essere finito, si ricava che Dio non è nulla di ciò che possiamo sentire, immaginare, pensare e volere. Applicando questo principio alla mistica, risulta assiomatico che tutto quanto l’anima faccia per raggiungere Dio, anziché essere mezzo adeguato ed efficace, sarà un impedimento, ostacolo e velo che gli impedirà di guadagnare l’unione. Nelle sentenze che abbiamo trascelto dal libro di Ibn ‘Abbâd e diamo di seguito riprodotte,[23] batte implicitamente questa dottrina metafisica, che qui non potremmo sviluppare pienamente senza dare un’estensione eccessiva al nostro studio. Ne deriva di necessità questa conseguenza: per guadagnare l’unione con Dio, bisogna rinunciare a tutto ciò che non è Dio.
Simile rinuncia appare esemplificata sotto simboli diversi, che si riflettono in un tecnicismo strettamente imparentato con quello di San Giovanni della Croce. Affianco al concetto tipico dell’ascetica tradizionale, «purgazione», Ibn ‘Abbâd impiega questi altri che sono tipici della scuola carmelitana: «vuoto» [vacío], «nudità» [desnudez] e «libertà»; l’anima deve svuotarsi, spogliarsi e liberarsi d’ogni appetito sensuale, d’ogni egoismo, da ogni inclinazione e appoggio nelle creature; deve uscire dalle cose, per andare verso Dio; deve eliminare ogni iniziativa, ogni autonomia del suo arbitrio, per incontrare la calma [sosiego], la quiete spirituale, la solitudine con Dio, che consiste nell’annullamento [anonadamiento], nella negazione di se stessa e nel totale abbandono o rinunzia [dejamiento]. Impossibile scendere ora alla dimostrazione testuale di simili analogie lessicali, che tenteremo invece più avanti, attraverso il confronto di alcune voci tecniche di entrambi gli scrittori.
Limitiamoci dunque per ora a sistematizzare le idee cardinali della dottrina della scuola shâdilita attinenti alla rinuncia. Tutte queste ruotano intorno alla teoria della larghezza [anchura] e dell’oppressione [apretura] dell’anima.
Affinché i mistici imperfetti giungano a cercare unicamente Dio, Questi ispira loro alternativamente due stati d’animo che sono analoghi alla speranza ed al timore dei semplici devoti o asceti e che si chiamano rispettivamente larghezza e oppressione. La larghezza di spirito (bast) è un sentimento di consolazione, diletto o armonia spirituale che riempie l’anima di allegria e benessere. L’oppressione (qabd) è uno stato di angustia e desolazione che affonda l’anima in sterminata tristezza e malessere. Il suo ritmo alternativo comincia con l’oppressione: la coscienza dei peccati della vita trascorsa e dei difetti della vita presente, la privazione volontaria da ogni godimento sensibile e le tribolazioni fisiche e morali che Dio invia all’anima, sono altrettanti mezzi di cui si serve Dio per metterla alle strette e ispirarle disgusto e tedio per tutto ciò che non è Lui; ma quando l’oppressione giunge a produrre nell’anima l’effetto depressivo dell’abbandono, Dio accorre in suo soccorso ispirandogli lo stato opposto, ossia la consolazione spirituale, per mezzo dei suoi favori, grazie e carismi, affinché non disperi di giungere all’unione; e quando allora l’anima, trasportata dal suo innato egoismo, sentirà affezione e attaccamento alla dolcezza della consolazione, Dio la pone di nuovo nella strettezza, perché unicamente in Lui cerchi il suo appoggio. I perfetti o contemplativi sono, dunque, gli unici esenti dal ritmo alternativo tra entrambi gli stati: ormai giunti alla quiete dell’unione trasformante, non pensano, non sentono, non vogliono altro che Dio, indifferenti e insensibili alla desolazione ed alla consolazione.
Non è necessario sottolineare il nesso di stretta affinità che offre questa dottrina con quella di San Giovanni della Croce, dato che, per di più, coincidono entrambi nei simboli utilizzati. Il ritmo alterno dell’oppressione e della distensione [anchura] venne osservato e analizzato dai sufi orientali molto presto; ma, come avverte Ibn ‘Abbâd, fu la scuola shâdilita quella che più profondamente si addentrò nel suo studio e quella che maggiore chiarezza pose nella tecnica del suo trattamento. Il fondatore, Abû-l-Hasan al-Shâdilî fu, inoltre, colui che ideò, per una maggiore esemplificazione plastica dei due stati, la sua somiglianza con il giorno e la notte; e la preferenza che accorda alla notte finisce per accentuare la parentela della sua dottrina con quella di San Giovanni della Croce, il quale pure nella «notte oscura dell’anima» individua il fondamento della mistica.
Effettivamente la desolazione per gli shâdiliti è lo stato preferito dei contemplativi, perché tale notte dell’anima implica la privazione di ogni godimento sensibile e perché dispone, assai più della consolazione, all’atteggiamento di servitù verso Dio, indispensabile alla contemplazione. Per questo Ibn ‘Atâ’ Allâh e il suo glossatore di Ronda assicurano che Dio nella notte dell’angustia si rivela all’anima molto più che nel giorno luminoso della larghezza, giacché le tenebre dell’abbandono sono il mezzo che Dio impiega normalmente per rendergli conoscibile il valore dei favori che gli elargì nei giorni felici dell’unione. L’anima non deve quindi disperarsi, se non sente la consolazione della presenza divina durante la preghiera o durante gli esercizi di pietà, perché per Dio son preferibili le opere in cui l’alma fa conoscenza dell’aridità [sequedad], e non della dolcezza e del gusto spirituale, perché tale consolazione è, per gli shâdiliti come per San Giovanni della Croce, una specie di ingordigia [gula] spirituale o segreta voluttuosità che deve essere repressa più di ogni altro attaccamento a ciò che non è Dio. L’anima quindi anziché gloriarsi e compiacersi delle benevolenze divine che la consolano, deve temerle e riceverle con cautela, attendendo di verificare il loro frutto spirituale. L’egoismo, sempre latente nei recessi più occulti del cuore, scruta senza sosta al fine di sviarlo da Dio, facendolo cadere nella sottile illusione di credere che Egli coincida con i favori divini. Al contrario, quando Dio pone l’anima nell’angustia [en estrecho], questo pericolo non deve essere temuto, visto che l’avversità, di per sé stessa, è repulsiva per l’amor proprio.
Da simile teoria generale della larghezza [anchura] e dell’oppressione [apretura] discendono le seguenti avvertenze o cautele che il maestro di spirito deve prescrivere alle anime da lui dirette. Due eventualità sono contenute in entrambi gli stati: 1a, che l’anima conosca la causa che ha prodotto in lei la larghezza o l’oppressione; 2a, che l’ignori. Le cause che precipitano [ponen] l’anima nella consolazione o distensione [anchura] sono tre: la coscienza di un progresso spirituale causato da un carisma e favore divino ricevuto; o dall’acquisto di un bene temporale o favore umano; o dal conseguimento della fama mondana, ossia la reputazione di santità e perfezione. Nel primo caso, l’anima deve ricevere il carisma non come premio per i propri meriti, ma come dono gratuito di Dio, senza sentire attaccamento o affezione al favore in quanto tale, né timore alcuno di perderlo. Nel secondo caso deve inoltre riceverlo con profondo timore dei pericoli spirituali che sempre stanno in agguato in ogni bene temporale. Nel terzo, l’anima deve aggiungere infiammati atti di gratitudine nei confronti di Dio, per aver celato agli altri uomini i difetti che patisce. Da ultimo, quando l’anima ignora la causa del sollievo, deve reprimere con ogni sforzo le manifestazioni esterne della sua allegria e il vivo desiderio che la stimola a interrogare gli altri circa le cause di tale stato; all’opposto, il silenzio ed una deliberata riservatezza intorno a tutto il suo essere segnaleranno il timore che le ispira simile euforia, anormale e inspiegabile, la cui ignota causa può celare pericoli spirituali, dai quali Dio solo è in grado di liberarla.
Precauzioni analoghe dovrà prendere nello stato di oppressione [apretura] o di angustia d’animo. Se l’anima ne ignora le cause, il rimedio migliore sarà la resa [dejamiento] o l’abbandono alla volontà di Dio: invece d’impegnarsi a reagire con forza contro l’esperienza della depressione, la quiete o calma [sosiego] nelle parole, nelle azioni e volizioni scioglierà rapidamente l’anima dallo sconforto [desconsuelo]. Se, al contrario,
gli è nota la causa del suo stato, possono darsi tre evenienze: che l’angustia sia dovuta alla consapevolezza di un qualche peccato o difetto; che risponda alla perdita di un bene temporale; che nasca, da ultimo, dal patimento di un dolore fisico o morale. Nel primo caso, la penitenza sarà il rimedio più efficace; per il secondo, dovrà ricorrere alla resa; per il terzo, la pazienza ed il perdono delle offese ricevute mitigherà rapidamente la depressione.
In tutti questi suggerimenti vibra, come si nota, lo stesso pensiero centrale della teoria poc’anzi descritta: il servo di Dio, nel suo vivere quaggiù, deve sentirsi schiavo del suo Signore; il cuore, oppresso e come premuto [apretado] dalla mano dell’Onnipotente, non può ragionevolmente battere in tutta la sua ampiezza, nemmeno quando il Misericordioso riversa su di lui il torrente delle sue consolazioni; la vita presente è una prigione, e le sue prospettive ultime, la morte ed i terrifici Novissimi,[24] reclamano piuttosto l’ipotensione del tono vitale che accompagna il timore; timore, peraltro, non semplicemente servile, bensì filiale, nel senso che l’anima, più che dei mali temporali e fisici, trema all’idea di perdere l’unione con Dio, per essersi affezionato alle cose che non sono Lui, nonostante queste siano Sua cose, ovvero i favori ed i carismi.
Da qui sorge spontanea la dottrina shâdilita sull’amore per le tribolazioni, somigliante a quella della scuola carmelitana. L’atteggiamento dell’anima di fronte alle avversità deve rimanere contenuto tra questi due limiti: la pazienza e la conformità; ossia, l’accettazione passiva e rassegnata, come minimo, quando non addirittura volontaria e degustata come ideale sommo di perfezione. È sufficiente, per conseguire un’attitudine paziente, considerare che Dio, nell’inviare all’anima la tribolazione, continua ciò nonostante ad essere infinitamente saggio e misericordioso: Lui sa, meglio dell’anima, ciò che le conviene, e non Gli importa nulla più del suo bene eterno. Sotto la rude e repellente corteccia della tribolazione si agitano insomma segreti favori e grazie spirituali, che i contemplativi conoscono a fondo; e questa è la convinzione che li muove a superare lo stato di rassegnazione passiva per quello della assaporata conformità ed accettazione positiva delle avversità.
Ibn ‘Abbâd analizza ed enumera con indugio scrupoloso i favori divini racchiusi nel travaglio, e la sua penetrante analisi è un modello di introspezione spirituale. Innanzitutto, le avversità contraddicono per definizione l’amor proprio, cioè quella brama di piacere innata nell’anima, e generano dolore che la sprofonda nell’afflizione [desconsuelo] e la spinge, per questo, a cercare rifugio unicamente in Dio. Per di più fiaccano l’energia vitale e abbassano il tono esaltato delle passioni, stimolo [fómite] di ogni peccato. Sono inoltre occasione propizia per realizzare atti di virtù interiore – pazienza, adesione [conformidad], rinuncia, abbandono nelle mani di Dio, ansia [anhelo] ad unirsi con Lui –, i quali superano in merito ogni esercizio di pietà e devozione esteriore. Questi permettono d’espiare le colpe della vita passata e aiutano a ottenere grazie per avanzare nella perfezione. Sotto la sferza [azote] dell’avversità, l’anima rinnova la penitenza dovuta per i suoi peccati e paga per quanto possibile i suoi debiti spirituali. Non è possibile compiere la meditazione sulla morte ed i Novissimi, antidoto contro il peccato, con più viva fede che nell’ambiente desolato della tribolazione fisica. D’altro canto, il dolore sofferto per Dio con pazienza serve a meraviglia affinché l’anima ripari e rimedi a precedenti mancanze in precetti ed atti di devozione. Vittima di piaghe [lacras] e difetti fisici o afflitta da ripugnanze morali, l’anima sperimenta come non mai la propria viltà, la nullità del proprio essere [la nada de su ser] e, nel sentirsi abbandonata dalle sue creature, contrariata nelle sue inclinazioni, orfana di ogni appoggio umano, questa profonda convinzione della propria necessità e nullità la porta alla presenza di Dio e le infonde un fervore e una sincerità nell’orazione, che invano cercherebbe nella pratica delle devozioni ordinarie. E Dio, da ultimo, si muove, misericordioso e compassionevole, ad aprire con maggior larghezza all’anima i tesori dei suoi favori, perché è ai poveri, e non ai ricchi, che deve esser data l’elemosina.
Dopo questa sottile analisi, l’amore delle tribolazioni, superando la mera pazienza, risulta perfettamente logico, giacché se l’amore delle cose create a cui tende l’egoismo dell’istinto sensibile è un ostacolo per arrivare a Dio e un velo che impedisce la contemplazione, è chiaro che l’anima che cerchi solo Dio dovrà amare l’avversità e compiacersi in essa, come strumento di purificazione spirituale e di avvicinamento a Dio. Simile inversione di valori, anche se appare paradossale all’occhiata superficiale dell’occhio profano, reca con sé tutta la trascendenza e sublimità dell’assioma evangelico: Qui odit animam suam in hoc mundo in vitam aeternam custodit eam, visto che se nelle avversità l’anima trova l’annichilamento dell’egoismo e la frustrazione delle speranze mondane che la allontanano da Dio, non v’è nulla di strano che, sentendosi più prossima a Lui, possa compiacersi e saltare di allegria, come alla vigilia di una festa. E questa è esattamente la comparazione scelta da Ibn ‘Atâ’ Allâh ed il suo commentatore, quando dicono, nella sentenza 181, che «le tribolazioni sono le pasque del contemplativo» che solamente in Dio pone la propria ricerca, come, al contrario, le prosperità mondane sono per lui giorno di doglianza.[25] E in un’altra sentenza, la 239, la stessa antitesi ritorna, ma sotto il simbolo (tanto caro agli shâdiliti come a San Giovanni della Croce) della notte e del giorno: l’oppressione è una sferza con cui Dio risveglia i suoi amici dal sogno della vanagloria; il favore umano è notte oscura dell’anima e la persecuzione è giorno gioioso.
Varie avvertenze, in forma di regole di condotta, vengono date di seguito per rendere concreta questa teoria dell’amore delle tribolazione. Esattamente come San Giovanni della Croce, Ibn ‘Abbâd formula una specie di tavola di preferenze, che deve essere adottata dall’anima, nella quale si sciupano le categorie della prosperità e dell’avversità. Chi aspiri alla perfezione deve preferire la povertà alla ricchezza, la fame all’abbondanza, il basso all’alto, la condizione vile alla nobile, l’umiliazione all’onore, la tristezza all’allegria, l’infermità alla salute e la morte alla vita. La coincidenza è tanto sorprendente, da riguardare persino il numero delle categorie, anche se quelle di Ibn ‘Abbâd sono più precise e non ulteriormente scomponibili di quelle di San Giovanni della Croce. E nemmeno si riduce l’ambito delle preferenze alle cose temporali, visto che in altre sentenze si applica identico criterio di scelta alle cose spirituali e religiose. In caso di dubbio tra due opere buone di precettistica o di devozione, l’anima deve optare per quella che sia più dura e penosa, visto che per cieco istinto l’egoismo tende sempre a ciò che gli è più gradito, comodo e lieve [ligero]. E se il dubbio di scelta è tra un atto di devozione e uno di precetto, Ibn ‘Abbâd esige di optare per questo in luogo di quello, perché preferire le devozioni alle obbligazioni è sintomo sicuro che l’anima non ha ancora totalmente ucciso l’egoismo. Solo i perfetti ed i contemplativi, che già non sentono alcuno stimolo, possono prescindere da questa cautela e scegliere ciò che gli appare essere più meritorio e fruttifero agli occhi di Dio, gli sia o meno grato. Si può immaginare senza difficoltà quale potrà essere per gli shâdiliti l’atteggiamento dell’anima nei confronti dei favori divini; all’amore per le avversità tende a corrispondere logicamente la rinuncia ai carismi. Ma non è tanto ovvia, come può apparire a prima vista, la soluzione del problema, perché qui si agitano casi sottili ed oscuri che si prestano a discussione, a seconda della prospettiva offerta dal carisma. Una teoria generale di questo, dei suoi fini e natura, deve dunque essere sviluppata prima di cercare soluzione al problema della rinuncia.[26]
L’autore ed il suo commentatore danno per conosciuta dai lettori la dottrina teologica dell’islâm relativa alla possibilità dei prodigi carismatici e alla metodica per distinguerli dai miracoli profetici e dalle falsificazioni diaboliche. Seguendo fedelmente le idee del mistico mursiano Ibn ‘Arabî, definiscono il carisma come una interruzione delle norme abituali del mondo fisico, come una rottura delle leggi della natura creata. Da questa definizione deducono, in virtù di una certa armonia inerente alla divina provvidenza, che Dio non concede mai il carisma, se non per premiare con esso gli atti buoni, che implicano anche una rottura delle abitudini morali viziose: il carisma è, dunque, la ricompensa della virtù, la manifestazione esteriore dell’onorifico favore con cui Dio riconosce chi la pratica.
Ma non si riduce a questa semplice formula ogni fine della provvidenza nella distribuzione dei carismi. Guardando al soggetto che lo riceve, bisogna distinguere due casi fondamentali: a uno viene dato il carisma a suo proprio favore, ovvero non semplicemente per innalzarlo, ma anche per suo vantaggio spirituale; ad altri, invece, glielo si concede in favore del prossimo. I primi sono quegli asceti o principianti ancora incamminati nella via della purificazione. Dio sa che queste anime tuttora guardano a se stesse, perché ancora non hanno annichilito il loro egoismo, e necessitano, per perseverare e progredire nella purgazione e nel riscatto dalle loro cattive abitudini, di ricevere da Lui un doppio aiuto: da una parte la consolazione dello spirito, che presuppone nella forma di favore il carisma; dall’altra parte, un aumento della viva fede nella provvidenza divina, onnipotente e trascendente tutte le cause create. L’anima, nel ricevere e sperimentare in forma palpabile il prodigio carismatico, si convince che le cause create non sono cause, bensì veli che occultano la Causa prima e unica, che è Dio; e così, si decide a cercarlo per mezzo le creature, senza porre in loro la sua affezione. Ma è qui che sorge per i principianti il pericolo più grave: se invece di prescindere dalle creature – giacché pure il carisma appartiene all’ordine del creato – l’anima si attacca ed affeziona alla consolazione e alla larghezza di spirito che sente, il carisma a quel punto non è già più un favore divino, ma diviene prova e peripezia spirituale [adversidad], perché, lungi da aiutarlo ad annientare l’egoismo, contribuisce, con le sue opportunità, a stimolare nel suo cuore l’appetito del proprio benessere e l’amore per i riconoscimenti mondani e la vanagloria. Il principiante che desidera il carisma e lo domanda a Dio nell’orazione e si compiace di possederlo come cosa propria, soffre, dunque, una illusione spirituale ed è vittima del massimo inganno, perché non è Dio che cerca, ma se stesso. La sua condizione è come quella del bimbo ingordo [codicioso] e insistente [pedigüeño] o delparassita che, senza essere stato invitato, pretende di sedersi alla tavola del convito divino; la sua puerilità si palesa nell’allegria che prova se riceve il carisma e nello sconforto che lo affligge se glielo si nega; e il suo parassitismo nasce dal suo aspirare al godimento di un onore che non merita e al quale non è stato chiamato, visto che il carisma si merita ed ottiene essenzialmente senza domandarlo e dopo che l’anima ha raggiunto la sincera convinzione della sua propria viltà e miseria.
Molto diversa è l’economia di Dio nella distribuzione dei suoi carismi tra i perfetti. Se ai principianti vengon concessi a loro profitto, per accrescere la loro fede e virtù, ai perfetti, che unicamente aspirano alla contemplazione ed all’unione, gli saranno inutili una volta raggiunto il loro obiettivo. Per questo, Ibn ‘Abbâd, come San Giovanni della Croce, considera degni di disprezzo per i contemplativi i carismi: la loro fede non abbisogna d’essere stimolata dall’esperienza dei prodigi, e la loro virtù ha raggiunto la cima della santità. In quanto a loro inutili, Dio d’ordinario glieli nega. E questi, a loro volta, li temono e rifuggono per il pericolo latente rappresentato dalla vanità spirituale. Su due criteri si sostengono inoltre i perfetti nel rinunciare ai carismi: uno è la convinzione profonda che il veridico ed unico carisma è la perfezione mistica, che si cifra nelle virtù e nella contemplazione e non nei loro prodigi, estasi ed illuminazioni; l’altro è che la servitù o schiavitù dell’anima nei confronti di Dio richiede l’umile astensione e la massima abnegazione, che si cifra nel riconoscimento della propria miseria, indegnità e bassezza. Se non nega se stesso [si no se niega a símismo], se non si reputa incapace di meritare e perfino di volere l’unione, il contemplativo mai la raggiungerà. Il timore reverenziale dello schiavo esige la soppressione di ogni iniziativa, di ogni autonomia, di ogni decisione spontanea. Solo nell’abbandonarsi alla sua provvidenza Dio si rivela all’anima sotto il velo dei suoi attributi. Questi si sovrappongono alle qualità e potenze dell’anima nell’unione trasformante, e a quel punto l’anima opera già con i divini attributi: non vede e non vuole se non quello che vede e vuole Dio.
Simile atteggiamento di rinuncia è, d’altro canto, la sola preparazione degna ed efficace all’accettazione dei carismi: l’abbandono totale nelle mani di Dio. Se così Lui vuole, li concede, ma non a favore di chi li riceve, bensì a profitto del prossimo, ossia per convincere i semplici fedeli del valore che la santità ha agli occhi di Dio e muoverli così a imitare la vita esemplare del santo; o anche affinché gli infedeli ed increduli si convertano all’islâm, alla luce dei prodigi carismatici.
Sorge a questo punto un ulteriore problema: se i carismi hanno fini tanto alti nell’economia della provvidenza, sarà lecito domandarli a Dio in conformità a questi scopi soli e senza alcun appetito di vanità spirituale? E se il conseguimento di tali fini è vincolato alla diffusione dei favori divini, come conciliare simile conquista, sempre desiderabile, con il pericolo di incorrere nel peccato di vanagloria? In prima istanza Ibn ‘Abbâd pensa, come i mystici majores della scuola carmelitana, che l’occultare i carismi e non domandarli è di gran lunga più perfetto e meritevole, perché va rotondamente contro l’egoismo, annichila [mata] la vanità e meglio si adatta all’atteggiamento di annullamento [anonadamiento] e disprezzo di se stesso che il servo di Dio deve adottare innanzi alla sovranità del suo Signore: il timore reverenziale, l’umiltà e la purezza d’intenzione, virtù caratteristiche della sudditanza, esigono riserbo riguardo i favori ricevuti; chi serve Dio solo in ragione di Dio, non si cura che gli uomini conoscano il suo essere onorato o meno dei suoi carismi; al contrario, predilige l’oscurità e la denigrazione della gente. È indispensabile dunque per i principianti rispettare il precetto di celare [callar] i favori mistici, le rivelazioni ed estasi. E debbono rivelarli al loro maestro spirituale solo per motivi di direzione. Identico prudente consiglio dà la Doctora de Ávila. I perfetti ed i contemplativi, invece, già liberi dal pericolo di affezionarsi al carisma come cosa di loro proprietà e di cadere nel peccato di vanagloria, possono violare la riservatezza e divulgare i favori ricevuti, con il solo intento di edificare il prossimo. Ordinariamente preferiscono, tuttavia, l’oscurità, perché più sicura per servire Dio con intenzione pura.
E questo stesso criterio va seguito in ciò che riguarda la richiesta di carismi. In linea di principio è preferibile l’astinenza, in quanto più adatta allo spirito di rinuncia. Sola ragione per domandarli sarà la dimostrazione della necessità che lega a Dio, come schiava, l’anima; ma senza credere che dalle suppliche ne dipenda l’ottenimento. Il contemplativo, unito a Dio da amore e conformato in tutto alla sua volontà, si consacra [entrégase] passivamente ai decreti della sua provvidenza, senza pretendere con le sue preghiere di ottenere cosa alcuna che non sia Dio stesso. A chi ha Dio non manca nulla, dice Ibn ‘Abbâd, con formula non diversa da quella di Santa Teresa. Senza Dio, nulla le è di utilità. Per questo motivo, guadagnata una dimora o conseguito un favore, non desidera né chiede di conservarlo, come nemmeno si affligge per la sua perdita, perché gli basta Dio [sólo Dios le basta]; ed i carismi, anche se sono di Dio, non sono Dio. Le grazie e le illuminazioni sono suoi messaggeri, che a nulla gli servono una volta ricevuto il messaggio. Per questo, primariamente, affinché l’anima non si affezioni al messaggio divino implicato dal favore, Dio è solito turbare il mistico e porlo in angustia [en estrecho], privandolo della consolazione e della dolce serenità [sosiego] nelle sue dimore. Il favore è un velo che occulta chi lo concede, per questo soffermarsi sul velo è cadere in un’illusione e privarsi della contemplazione del Benefattore che dietro lui si cela.

3. Coincidenze tra il lessico shâdilita e quello di San Giovanni della Croce

È impossibile trasmettere, attraverso questo freddo e arido riassunto, la profonda impressione che produce la lettura testuale delle sentenze di Ibn ‘Atâ’ Allâh e del suo glossatore a proposito di questi temi. Gran parte dei tratti accessori, forzosamente eliminati nella nostra sintesi, danno al pensiero tutta una vita e una luminosità singolari, che il riassunto anteriore non può trasmettere. È necessario leggere i testi direttamente, anche solo attraverso la nostra traduzione, la quale però, nonostante sia fedele e scrupolosa, non è eguagliabile al testo originale. Ma, fatte queste premesse, anche il lettore digiuno di lingua araba deve provare la sorpresa più insospettata al comprovare quanto numerose e quanto strette siano le analogie sussistenti tra l’atteggiamento di rinuncia ai carismi comune agli shâdiliti e alla scuola carmelitana. Queste, di fatto, riguardano non solo le idee basiche che sviluppano il tema, ma pure i simboli che loro danno corpo e perfino nel dettaglio del lessico che le esprime e traduce. Di fatto, eliminati i vocaboli tecnici e le immagini metaforiche comuni ad entrambe le scuole per il fatto di dipendere dalla stessa tradizione cristiana e neoplatonica, resta ciononostante una non trascurabile rimanenza di simboli e di voci comuni che mancano di precedenti in quella tradizione e che sono patrimonio esclusivo della scuola shâdilita e della mistica di San Giovanni della Croce. Il termine tecnico qabd che come abbiamo visto è il perno [quicio] sul quale gira l’intera teoria shâdilita, deriva dalla radice araba qabada, che ha i seguenti significati, diretti o metaforici: «afferrare»[coger], «soggiogare» [sujetar], «stringere» [apretar], «prendere» [tomar], «contrarsi»[contraerse], «sentire disgusto», «essere triste», «sperimentare angoscia», «stringersi il cuore». Il termine, quindi, opera nei testi arabi con la stessa ricca varietà di idee, consanguinee di quelle che San Giovanni della Croce esprime con le seguenti voci castigliane, che si ripetono ad ogni riga nella sua Noche oscura del alma: «aprieto», «apretura», «prisión», «oprimir», «poner en estrecho», «tortura», «angustia», «pena».[27]
Il suo opposto, il termine bast, la cui radice in arabo significa in senso letterale «estendere», «allargare» [ensanchar], «dilatare», «aprire la mano» e, in senso metaforico, «rallegrarsi», «star comodo», «provare benessere», «essere contento», è anche sinonimo della voce castigliana «anchura», che, nei due sensi, letterale e metaforico, usa egualmente, anche se con meno frequenza di «aprieto», San Giovanni della Croce.[28]
Simile doppio parallelismo si accentua ancor più se si tiene in considerazione che i due termini, qabd e bast («aprieto» e «anchura»), adottano, come simboli equivalenti nel lessico tecnico shâdilita le espressioni metaforiche di «notte» e «giorno». Baruzi, che ha condotto a compimento l’esame del “lessico della rinuncia” di San Giovanni della Croce,[29] vacilla a spiegarne l’origine: senza disconoscere che il simbolo notturno ha precedenti sporadici nella mistica cristiana, non crede che questi sciolgano l’enigma, perché la «noche oscura» di San Giovanni della Croce è un simbolo molto più ricco di contenuto etimologico, più suggestivo e complesso dei suoi antecedenti.
Nel suo doppio e progressivo significato di «notte del senso» [noche del sentido] e «notte dello spirito», traduce, in pratica, la rinuncia a soddisfare l’appetito per ogni cosa, e l’oscurità della parte razionale dell’anima è tragitto all’unione con Dio e aurora del giorno della contemplazione.
Dunque bene, queste equazioni, «notte» = oppressione [aprieto] e sconforto dell’anima necessario alla sua purificazione, raggiunta passivamente attraverso gli affanni, e attivamente attraverso la mortificazione degli appetiti; «notte» = aridità e desolazione spirituale, nella quale Dio sprofonda l’anima per scioglierla da tutto ciò che non è Lui, inclusi i carismi; «notte» = oscurità e cecità di ogni percezione distinta e inibizione assoluta della volontà – queste equazioni, dicevamo, sono implicite all’uso che gli shâdiliti fanno del simbolo notturno. E di più: come avverte Ibn ‘Abbâd,[30] fu Abû-l-Hasan, fondatore della scuola, il primo che ideò e pose in circolazione quel simbolismo lirico, al comparare gli stati mistici del qabd e del bast con la notte ed il giorno. E se è certo che «l’oppressione» [aprieto] o qabd non ha esplicitamente per gli shâdiliti tutto il complesso e sistematico contenuto che l’analisi rivela nella «notte oscura» di San Giovanni della Croce, chiude in sé, per lo meno, quella tripla equazione: qabd = oppressione per la purificazione passiva e attiva; qabd = desolazione spirituale in cui Dio inabissa l’anima per scioglierla da ciò che non è Lui; qabd = notte oscura nelle cui tenebre Dio si rivela all’anima più frequentemente che nel giorno dell’illuminazione e della distensione [anchura]. L’attenta lettura delle sentenze di Ibn ‘Atâ’ Allâh ed i commentatori di Ibn ‘Abbâd alimenteranno nel lettore la convinzione circa l’esattezza di queste equazioni.[31]
La rinuncia a tutto ciò ch’è creato – al sensibile, al razionale, allo spirituale ed al divino che non è Dio, ossia ai carismi –, adotta in San Giovanni della Croce varie forme di espressione simbolica, che coincidono anche con i termini tecnici che impiegano gli shâdiliti per esemplificarla. Tale rinuncia, di fatto, è per San Giovanni della Croce una «nudità»[«desnudez»],[32] una «libertà» [«libertad»],[33] un «vuoto» [«vacío»],[34] un «uscire dalle cose» [«salir de las cosas»].[35] E nelle sentenze di Ibn ‘Atâ’ Allâh, commentate da Ibn ‘Abbâd di Ronda, affiorano ad ogni riga questi stessi simboli della rinuncia sotto voci arabe che li traducono quasi alla lettera: tajrîd, nudità,[36] hurriyya, libertà;[37] tafrîgh, vuoto;[38] al-khurûj min al-asbâb, l’uscire dalle cose [n.d.t cause].[39]

4. Ipotesi d’interpretazione di queste coincidenze

Questo confronto di testi, paralleli nelle loro idee e formule tecniche, potrebbe ampliarsi ad altri temi dell’ascetica e della mistica di entrambe le scuole, shâdilita e carmelitana; ma ciò già ci porterebbe fuori del tema di questo studio che è dedicato esclusivamente a quello della rinuncia. Malgrado ciò, le analogie rilevate sono sufficienti a stimolare lo spirito curioso dello studioso e sollecitarlo a porsi il problema delle sue origini. La molteplicità e la caratteristica tipologia delle somiglianze nel pensiero e nel lessico che lo traducono obbligano ad abbandonare come spiegazione la mera coincidenza casuale o il semplice parallelismo funzionale della comune psicologia umana. L’ipotesi d’imitazione, più o meno inconsapevole, di una stessa tradizione letteraria, incontra, a prima vista, la difficoltà costituita dal trattarsi, in questo caso, di testi arabi, la cui comprensione è oggi patrimonio di pochi specialisti. Eppure se volgiamo lo sguardo alla cornice geografica e storica in cui il nostro problema si pone, la Spagna del XVI secolo, l’inverosimiglianza già tende a diminuire. In tutta l’estensione del territorio spagnolo, e non solamente in Andalusia ma pure in Castiglia, vive un copioso numero di moriscos da poco convertiti al cristianesimo, che non si può credere abbiano dimenticato con la loro conversione l’educazione islamica ricevuta, e soprattutto nei temi comuni ad entrambe le religioni, non concernenti il dogma, così come avviene con tutto ciò che riguarda l’ascetica e la mistica. In Arévalo, Medina, Pastrana, Salamanca, Granada, Alcalá, Segovia, Ávila e Toledo, ovvero città e paesi che furono tutti scenario della vita di San Giovanni della Croce, le statistiche del XVII secolo svelano la sopravvivenza di importanti centri moreschi.[40] I decreti reali di espulsione eccettuavano dal bando i chierici ed i religiosi di entrambi i sessi di cui constava che erano cristiani nuovi, ossia moriscos convertiti.[41] Tra gli ‘‘illuminati’’ [alumbrados] di Andalusia e Castiglia forse non sono mancati alcuni che lo erano. I processi di inquisizione, esplorati con questo intento, aiuteranno a chiarire il problema. Il “quietismo”, tanto prossimo all’abbandono [dejamiento], è per la mistica shâdilita un pericolo contro cui levarono allarmi i sufi della scuola spagnola, in particolare Ibn ‘Abbâd, così come fece San Giovanni della Croce contro quello degli ‘‘illuminati’’ [alumbrados].[42] Tutti questi fatti ed altri ancora, che qui non potremmo documentare senza dare a questo saggio proporzioni smisurate, danno una certa verosimiglianza all’ipotesi di sua trasmissione letteraria.
Certo non possediamo notizie positive della diffusione tra i moriscos delle teorie mistiche shâdilite, ma in cambio ne abbiamo della continuità della scuola sino ai nostri giorni nei paesi musulmani del nord Africa dove si rifugiarono i moriscos spagnoli, dopo la loro espulsione: Tunisia e Marocco.
L’abbondanza di manoscritti occidentali dei libri di Ibn ‘Atâ’ Allâh commentati da Ibn ‘Abbâd di Ronda, conservati nelle biblioteche europee, è un rilevante sintomo del continuo studio che si fece della mistica shâdilita in tutto il mondo islamico. I commenti alle Hikam si moltiplicano a partire dal 1394, data di morte di Ibn ‘Abbâd: Zarrûq (m. 1493) ne redige uno in Marocco; Aqsarâ’î (m. 1497) ne scrive un’altro alla Mecca; e ulteriori commentatori appaiono successivamente nei secoli XVI, XVII e XVIII. Le stamperie di Bulâq e del Cairo riproducono durante il XIX secolo, in edizioni ripetute, quello di Ibn ‘Abbâd di Ronda.[43] L’università islamica di Tunisi, Jâmi‘a az-Zaytûna, conserva ancora oggi la devozione fervorosa per questo libro, segnalandolo come testo obbligatorio per l’insegnamento superiore della mistica.[44] Abbiamo già ricordato che Tunisi fu il rifugio dei moriscos spagnoli: principalmente lì andarono a stabilirsi, dagli inizi del loro esodo, i più illustri, quelli che conservarono, nella scienza, nelle arti e nei costumi, la tradizione andalusa. Anche nell’università di Fez si continua a insegnare la mistica musulmana seguendo le indicazioni dei libri dell’autore delle Hikam: quelli intitolati Tanwîr e Latâ’if, assai impiegati da Ibn ‘Abbâd nei suoi commenti a quello.[45] Se, dunque, la dottrina shâdilita si mantiene ancora viva nei centri islamici occidentali di lignaggio andaluso, sarebbe audace sostenere che fosse ignorata tra i moriscos spagnoli del XVI secolo.
L’ipotesi, pertanto, di una trasmissione letteraria, per spiegare le coincidenze segnalate nel nostro studio non può essere scartata a priori. E lascerebbe, comunque, sempre valida la spiegazione del fatto mistico, trascendente e soprannaturale in se stesso, sotto il guscio [corteza] della sua espressione verbale. Già Groult ha saggiamente scritto, a proposito di un problema analogo a quello che ci occupa, che anche se i grandi mistici cristiani hanno le loro opere per ispirazione divina, ciò non toglie che abbiano avuto modelli letterari.[46] Perfino gli autori umani delle Sacre Scritture, ispirati dallo Spirito Santo, scrissero «modo humano», di conseguenza non è contrario all’ortodossia cercare e scoprire nelle loro forme di espressione una dose rilevante di reminiscenze, dipendente da fonti letterarie, così come forme d’espressione, idee ed immagini dipendenti dal loro personale temperamento psicologico. L’intera mistica cristiana, in margine alla sua trascendenza soprannaturale, ha impiegato il lessico dello Pseudo-Dionigi, che è in gran parte neoplatonico e, pertanto, pagano.
E non bisogna dimenticare, per di più, che la mistica musulmana in generale, e la shâdilita in particolare, è erede diretta di quella cristiana orientale allo stesso tempo che del platonismo. Si tratterebbe dunque, se l’ipotesi della trasmissione letteraria venisse confermata, di un caso, per nulla anomalo, di restituzione culturale: un pensiero evangelico e paolino, innestato nell’islâm nel medioevo, avrebbe acquistato qui uno sviluppo tanto ricco di sfumature ideologiche nuove e un manto [ropaje] tanto opulento di forme d’espressione inusitate, che, trasferito poi sul suolo spagnolo, i nostri mistici del XVI secolo non avrebbero disdegnato di accoglierlo nelle loro opere, attratti dall’originalità delle immagini e dalla delicatezza delle analisi psicologiche, senza forse sospettare nemmeno remotamente la filiazione islamica del tronco sul quale il pensiero paolino era stato innestato. In ogni caso, se si preferisce vedere nelle analogie qui studiate il semplice effetto di una casuale coincidenza per via di poligenesi [paralelismo de ideación], non smetterà d’essere fenomeno quanto meno sorprendente, per gli storici della mistica, il fatto che nella Spagna del XIV secolo fiorisse un precursore musulmano di San Giovanni della Croce, le cui idee e simboli più tipici sono stati considerati sino ad oggi un enigma indecifrabile, in ragione del suo difettare assolutamente di precedenti letterari.
Miguel Asin Palacios

[traduzione italiana di Andrea Celli]
Tratto da www.academia.edu
"Miguel Asín Palacios, Juan de la Cruz e la cultura arabo-ispanica", Introduction to Asín Palacios, Miguel. “Un precursore ispano-musulmano di San Giovanni della Croce”, ed. and trans. Andrea Celli. Rivista di Storia e Letteratura Religiosa 1 (2007): 69-122m 

Nella foto: Particolare decorativo del patio della reggia di Alcázar di Siviglia


[1] M. Asin Palacios, Un precursor hispanomusulman de San Juan de la Cruz, in «Al-Andalus, revista de las escuelas de Estudios árabes de Madrid y Granada», I, 1933, pp. 7-79. La traduzione francese appare in «Études carmélitaines» già l’anno prima, nel 1932, pp. 113-167. Ora in M. Asin Palacios, Tre estudios sobre pensamiento y mística hispanomusulmanes. Ibn Masarra y su escuela; El mı´stico Abû-l-‘Abbâs Ibn al-‘Arîf y su ‘‘Mahâsin al-majalis’’; Un precursor hispanomusulma ´n de san Juan de la Cruz, Madrid, Hiperio´n, 1992, pp. 243-326. Da questa edizione,  che aggiorna gli usi grafici per le traslitterazioni dall’arabo, traduciamo. Abbiamo preferito conservare senza alcuna alterazione le note dell’autore, anche quando ormai poco utili. 
[2] El Islam cristianizado. Estudio del sufismo a través de las obras de Abenarabi de Murcia, Madrid, Plutarco, 1931, pp. 272-273. 
[3] Ivi, pp. 212-215. 
[4] Cfr. L. Massignon, Al-Hallâj, Paris, Geuthner, 1922, vol. II, pp. 494-495. 
[5] Della regione settentrionale del Marocco[N.d.t]. 
[6] In realtà toponimico[N.d.t]. 
[7] Cfr. Asin, El Islam cristianizado, cit, p. 272. 
[8] In arabo, Sharh Ibn ‘Abbâd al-Rundîli-l-Hikam al-‘Atâ’iyya, Cairo, 1324 (h). Per le citazioni Sharh Hikam. Abbiamo preferito non adeguare la numerazione di Asín a quella poi adottata nell’edizione di Paul Nwyia (Ibn ‘Atâ’ Allâh (m. 709/1309) et la naissance de la confrérie shâdilite, Edition critique et traduction des Hikam par P. NWYIA, Beyrouth, Dar el-Machreq, 1971). Il lettore italiano può consultare IBN ‘ATÂ’ ALLÂH, Sentenze e colloquio mistico, a cura di C. VALDRE ´, Milano, Adelphi, 1981[n.d.t]. 
[9] Fonti: al-Maqqarî, Nafh at-tib, Cairo, III, pp. 175-180. – Muhammad ibn Sakkâk, Kitâb fî asâlîb al-balâgha, cod. escur. n. 3843, ff. 108v-110r; 126r-128v – Zarrûq al-Maghribî, Kitâb al-futûhât ar-rahmâniyya, cod. escur. n. 738, f. 7r. 
[10] Piccola città andalusa, già capitale di un principato musulmano[N.d.t]. 
[11] Zona montuosa[N.d.t]. 
[12] tâ’ifa significa parte, porzione, banda, partito, comunità. Con ‘‘regni di taifa’’ (mulûk at-
tawâ’if) la storiografia intende l’epoca seguita alla caduta del califfato omayyade andaluso nei primi decenni del 1000. Il territorio arabo-andaluso si frammentò in una miriade di principati, che aprì le porte all’esercito almoravide[N.d.t]. 
[13] Giudice del tribunale sciariatico[N.d.t]. 
[14] Il nutrimento dei cuori[N.d.t]. 
[15] Il suo autore, un famoso scrittore mistico della Mecca, fiorì nel X secolo della nostra era. Il titolo del libro significa “Alimento dei cuori”. È uno studio poco sistematico, ma abbondantissimo di informazioni, soprattutto sugli stati, dimore e carismi della vita spirituale. – Nel suo Epistolario Ibn ‘Abbâd prende altresì in considerazione le opere di al-Ghazzâlî. 
[16] È appunto una delle porte del quartiere andaluso, nella parte orientale della città[N.d.t]. 
[17] Manteniamo la grafia tradizionale ‘‘cristiana’’ del nome del profeta dell’islâm, in conformità con la scelta dell’autore. La soluzione oggi preferita prevede la fedele trascrizione fonetica, Muhammad[N.d.t]. 
[18] Comparazione familiare anche a San Giovanni della Croce. Cfr. Bruno de J.M., St Jean de la Croix, Paris, Plon, 1929, p. 431, nota 23: «Bástele a la bestezuela[...] que así llamaba su carne», ivi, p. 345. «Le Saint leur répondit qu’il é tait un misé rable ver...». 
[19] Cf. supra, p. 246, nota 3: cod. escur. n. 3843, fo 110r. 
[20] Ms. arabo n. 740. Contiene inoltre tutte le restanti opere di Ibn ‘Abbâd, ovvero: il suo Commento alle «Sentenze di Ibn ‘Atâ’ Allâh di Alessandria» (fos 1-183); il suo Epistolario (f. 183v-237r); ed il suo opuscolo intitolato Kitâb fath al-tuhfa waidâ’a al-sudfa[Libro di introduzione alla rarità e illuminazione della tenebra], che è una collezione di sentenze, attribuite a Maometto, utili come norme di vita morale ed ascetica, che Ibn ‘Abbâd cataloga per materie in cinquanta capitoli e chiarisce con brevi commenti (fos 237-265). – Il codice è prezioso, sia perché contemporaneo all’autore, sia per la sua calligrafia, per la carta e la lussuosa rilegatura d’epoca, destinato al sultano Abû Faris, figlio e successore di Abû-l-‘Abbâs, il protettore di Ibn ‘Abbâd che regnò dal 1394 al 1414 d.C. – Dell’Epistolario esiste un’edizione litografica: Fes, 1320 egira, in 4º, 262 fogli. 
[21] Cfr. Sharh Hikam, I, 59, 75, 88, 96; II, 9, 13, 52. Ibid., I, 88; II, 7, 13, 33, 38, 52. A volte (II, 52) cita anche il maestro fondatore ‘Abd as-Sallâm ibn Mashish. 
[22] Cfr. Sharh Hikam, I, 58, 75; II, 7, 12, 27, 38, 52. 
[23] In appendice al testo, Asín Palacios accludeva una larga scelta di brani che qui non abbiamo ritenuto di poter riprodurre[N.d.t]. 
[24] Novissimi, nella teologia cattolica, sono le ultime cose cui va incontro l’uomo alla fine della vita: morte, giudizio, paradiso o gloria[N.d.t]. 
[25] Ibn ‘Abbâd commenta questo simbolo con una canzone del sufi orientale Rudabârî, che offre una curiosa somiglianza di pensiero con la seguente quintilla che Anna di Gesù, discepola di San Giovanni della Croce, fece cantare a due sue novizie (apud Bruno, S.J. de la Croix, cit, p. 196):
Quien no sabe de penas
en este triste valle de dolores,
no sabe de buenas
ni ha gustado de amores,
pues pena es el traje de amadores. 
[26] Cfr. infra, sentenze 120, 136, 138, 139, 156, 170, 173, 179, 184, 185, 195, 226, 227, 239. 
[27] Servano di esempio i seguenti passi, presi dall’edizione Ribadeneyra (Biblioteca de autores españoles, t XXVII), pp. 113, 114, 116, 118-122, 124-128, 130-133, 165, 253, etc. 
[28] Cfr. ivi, pp. 116, 122, 123, 271, etc. 
[29] Cfr. J. Baruzi, Saint Jean de la Croix et le problème de l’expérience mystique, Paris, Alcan, 1924, pp. 140, 287, 314, 643, 686, et passim. 
[30] Cfr. infra, sentenza 91. 
[31] Cfr. infra, sentenze 89, 90, 91, 115, 120, 138, 156, 159, 182, 204, 215, 225-227. 
[32] Subida (Prologo) «[...] como ya esta´n bien desnudos de las cosas temporales de este siglo, entendera´n mejor esta doctrina de la desnudez de espíritu». Cfr. Subida, l. II, Introduzione: «[...] desnudar el espíritu de todas las imperfecciones espirituales y apetitos de propiedad en lo espiritual». Ibid.: «[...] que es la espiritual desnudez de todas las cosas, así sensuales como espirituales[...]» ibid., cap 4º: «[...] porque el amor es obrar en despojarse y desnudarse por Dios de todo lo que no es Dios». 
[33] Noche del sentido (commento del verso 5a della strofa 1a): «Finalmente, por cuanto aquí el alma se purga de las aficiones y apetitos sensitivos, consigue libertad de espíritu[...]». 
[34] Subida, l. I, cap. 1º: «Porque no atina uno por sí solo a vaciarse de todos los apetitos para ir a Dios». Cfr. Santa Teresa, Moradas (settima dimora, capitolo 2º): «[...] que es muy cierto que en vaciando nosotros todo lo que es criatura[...]». 
[35] Noche del sentido, Introduzione al commento della strofa 1a: «[...] y dice[el alma] que este salir de síy de todas las cosas fué ‘‘en una noche oscura’’ que[...] causa en el alma la negación de sı misma y de todas las cosas». Ibid., commento del verso 4a della strofa 1a: «[...] en salir el alma, segu´n el afición y operación, por medio de esta noche, de todas las cosas criadas[...]». Cfr. Cántico, commento del verso 1a della strofa 1a: «[...] conviénele salir de todas las cosas criadas[...]». 
[36] Cfr. Sharh Hikam, I, 4, l. 15, sentenza 2: «La nudità[tajrîd] comporta il privarsi l’anima di ogni preoccupazione delle cause, ossia delle cose per le quali è raggiunto il guadagno delle cose temporali[...]». 
[37] Cfr. Sharh Hikam, II, 35, l. 7, sentenza 215: «non ami una cosa, senza farti servo di lei; e Dio non vuole che tu sia servo se non di Lui». Ivi, II, 64, ultima linea: «Esistere tu per le cose significa legarti a loro e aver bisogno di loro. Tu, quindi, sei loro schiavo[...]. Esistere le cose per te significa dominarle e non averne bisogno. Tu, quindi, sei libero, e sono loro ad aver bisogno di te e ti servono come schiave». 
[38] Cfr. Sharh Hikam, II, 33, linea 11, sentenza 211: «A volte ti giungono le luci divine e, all’incontrare il cuore pieno delle immagine dei tratti[di Dio, ossia, delle cose create], se ne vanno così che discendono. Svuota il tuo cuore delle cose diverse da Dio e Lui te lo colmerà di intuizioni mistiche»[Commento]: «A volte, le luci divine giungono al cuore e non incontrano in lui alcuno spazio in cui stabilire la loro dimora, perché è dominato dalle follie dell’umanità e soggiogato dalle immagini delle impronte di Dio[che non sono Lui]. Perciò le luci se ne vanno, così come sono discese, perché sono sante e pure. Se, dunque, tu vuoi che le luci divine alberghino nel tuo cuore e lo illuminino con intuizioni mistiche, vuotalo delle cose diverse da Dio e cancella da esso le immagini delle impronte». Cfr. ivi, I, 6, sentenze 4 e 5. 
[39] Cfr. Sharh Hikam, I, 4, l. 11, infra: «[...] e quando Dio pone l’anima nella dimora della nudità e lei chiede di uscire da tale dimora alle cose[...]» ivi, I, 5, l. 7: «[...] e se abbandonate le cose e vi denudate di loro, vi illumineranno le luci[...]» ivi, l. 12: «[...] e se entri nelle cose[...]». Cfr. II, 58, ultima riga: «Il massimo beneficio divino è l’uscire l’anima da se stessa, perché lei è il maggiore dei veli che ti separano da Dio». 
[40] Cfr. Janer, Condición social de los moriscos de España, Madrid, 1857, p. 268, doc. LXXV: «Ávila, 1390[moriscos] tra gli antichi e quelli che lì si raccolsero da Granada[dopo il 1572]. – Toledo, 2984 di confessione, senza contare i figli». Ibid., p. 346, doc. CXXX: «Lista e numero ufficiali dei moriscos espulsi da Castiglia la Vecchia e dal regno di Toledo»[anno 1610-11]:
Medina del Campo 123 famiglie 549 persone
Arévalo 72 // 330 //
Ávila 346 // 1349 //
Toledo 949 // 4128 //
Alcalá 291 // 1206 //
Segovia e la sua terra 199 // 856 //
Salamanca 220 // 958 //
Pastrana 528 // 2214 // 
[41] Cfr. Janer, op. cit, p. 342, doc. CXXV: «Bando reale che segnala i porti da cui dovevano imbarcarsi i moriscos di Valenzia, Mursia, Andalusia, Catalogna ed Aragona e che proibisce il loro ritorno in Spagna»: «[...] avvertendo che non si deve intendere questo bando né devono essere espulsi[...] coloro che di nazione morisca si siano fatti chierici, frati o monache[...]»[anno 1610]. Ivi, p. 344, documento CXXVII: «Chiarimento importante dei Bandi pubblicati per l’espulsione dei moriscos»: «[...] e dichiaro che non si deve intendere né si esegua quest’ordine[...] con i moriscos, anche appartenenti al regno di Granada, già sacerdoti, frati o monache[...]»[anno 1611]. 
[42] Baruzi, op. cit, p. 258, nota 1; 259, nota 6; 264, nota 1 e 2; 739, nota 2. Bruno, op. cit, pp. 282-284. Cfr. Sharh Hikam, I, 78. 
[43] Cfr. C. Brockelmann, Geschichte der arab. litt, II, 118. 
[44] Cfr. «Revue des études islamiques», IV, 1930, p. 453: «Pour le tesawof: les Hikam, avec le commentaire d’Ibn ‘Abbâd». 
[45] Cfr. Delphin, Fas, son université, p. 36. 
[46] Cfr. Groult, Les mystiques des Pays-Bas et la litte´rature espagnole du XVIe siècle, Louvain, 1927, prologo.

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