"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 30 maggio 2014

René Guénon, L'esoterismo di Dante. VII - I numerici simbolici

René Guénon
L'esoterismo di Dante

VII - I numeri simbolici

Prima di passare alle considerazioni che riguardano la teoria dei cicli cosmici, dobbiamo fare alcune osservazioni sul ruolo ricoperto dal simbolismo dei numeri nell’opera di Dante; a questo proposito abbiamo trovato alcune indicazioni molto interessanti in uno studio del professor Rodolfo Benini,[1] il quale tuttavia non ne ha tratto tutte le conclusioni che esse ci sembrano comportare. È ben vero che lo studio è una ricerca sul piano primitivo dell’Inferno, intrapresa con intenzioni di ordine soprattutto letterario; ma le constatazioni alle quali conduce questa ricerca hanno in realtà una portata assai maggiore.
Secondo Benini, vi sarebbero per Dante tre coppie di numeri aventi un valore simbolico per eccellenza: sono 3 e 9, 7 e 22, 515 e 666. Per i primi due numeri non vi è alcuna difficoltà: tutti sanno che la divisione generale del poema è ternaria, e ne abbiamo spiegato le ragioni profonde; d’altra parte, abbiamo già ricordato che il 9 è il numero di Beatrice, come si vede nella Vita nuova. Questo numero 9 è del resto direttamente collegato al precedente, giacché ne è il quadrato, e lo si potrebbe chiamare un triplo ternario; è il numero delle gerarchie angeliche, quindi quello dei Cieli, ed è anche il numero dei cerchi infernali, poiché vi è un certo rapporto di simmetria inversa tra i Cieli e gli Inferi. Quanto al numero 7, che troviamo in particolare nelle divisioni del Purgatorio, tutte le tradizioni sono d’accordo nel considerarlo un numero sacro, e non crediamo utile elencare qui tutte le applicazioni cui esso dà luogo; ricorderemo soltanto, come una delle principali, la considerazione dei sette pianeti, che serve di base a una moltitudine di corrispondenze analogiche (ne abbiamo visto un esempio a proposito delle sette arti liberali). Il numero 22 è legato a 7 dal rapporto 22/7, che è l’espressione approssimativa del rapporto tra la circonferenza e il diametro, sicché l’insieme di questi due numeri rappresenta il cerchio, che è la figura più perfetta per Dante come per i Pitagorici (e tutte le divisioni di ciascuno dei tre mondi hanno questa forma circolare); inoltre, 22 riunisce i simboli di due dei «movimenti elementari» della fisica aristotelica: il movimento locale, rappresentato da 2, e quello dell’alterazione, rappresentato da 20, come spiega Dante stesso nel Convivio.[2] Tali sono, per quest’ultimo numero, le interpretazioni date da Benini; pur riconoscendo che esse sono perfettamente giuste, dobbiamo tuttavia osservare che quel numero non ci sembra così fondamentale come lui pensa e ci appare soprattutto derivato da un altro che lo stesso autore menziona solo come secondario, mentre ha in realtà un’importanza maggiore: è il numero 11, di cui 22 non è che un multiplo.
Qui dobbiamo insistere un poco, e diremo subito che questa lacuna di Benini ci ha tanto più sorpresi in quanto tutto il suo studio si posa sulla seguente osservazione: nell’Inferno la maggior parte delle scene complete o degli episodi nei quali si suddividono i diversi canti contiene esattamente undici o ventidue strofe (alcuni soltanto dieci), c’è poi un certo numero di preludi e di finali in sette strofe, e, se queste proporzioni non sono sempre state mantenute invariate, è perché il piano primitivo dell’Inferno è stato successivamente modificato. In queste condizioni, perché mai l’11 non sarebbe da considerare almeno tanto importante quanto il 22? Questi due numeri si trovano associati anche nelle dimensioni assegnate alle ultime «bolge», le cui circonferenze rispettive sono di 11 e 22 miglia; ma 22 non è il solo multiplo di 11 che compaia nel poema. C’è anche 33, che è il numero dei canti in cui si divide ciascuna delle tre parti; soltanto l’Inferno ne ha 34, ma il primo è piuttosto un’introduzione generale, che completa il numero totale di 100 per l’insieme dell’opera. D’altra parte, conoscendo l’importanza del ritmo per Dante, è lecito pensare che non abbia scelto arbitrariamente il verso di undici sillabe, e nemmeno la strofa di tre versi che ci ricorda il ternario; ogni strofa ha 33 sillabe, così come gli insiemi di 11 e 22 strofe di cui si è parlato contengono rispettivamente 33 e 66 versi; e i diversi multipli di 11 che qui troviamo hanno tutti un valore simbolico particolare. È dunque insufficiente limitarsi, come fa Benini, a introdurre 10 e 11 tra 7 e 22 per formare un «tetracordo che ha una vaga somiglianza con il tetracordo greco»; la sua spiegazione ci sembra alquanto confusa.
La verità è che il numero 11 aveva un ruolo considerevole nel simbolismo di certe organizzazioni iniziatiche; e, quanto ai suoi multipli, ricorderemo semplicemente questo: 22 è il numero delle lettere dell’alfabeto ebraico, ed è nota la sua importanza nella Cabbala; 33 è il numero degli anni della vita terrena di Cristo, che si ritrova nell’età simbolica della Rosa-Croce massonica e anche nel numero dei gradi della Massoneria scozzese; 66 è per gli arabi il valore numerico totale del nome di Allah, e 99 è il numero dei principali attributi divini secondo la tradizione islamica; non sarebbe certo difficile trovare numerosi altri accostamenti. Al di fuori dei diversi significati che si possono attribuire a 11 e ai suoi multipli, l’uso che ne ha fatto Dante costituiva un vero e proprio «segno di riconoscimento», nel significato più stretto di tale espressione; e per noi è precisamente questa la ragione delle modifiche subite dall’Inferno dopo la sua prima versione. Tra i motivi che hanno determinato tali modifiche, Benini adduce alcuni cambiamenti nel piano cronologico e architettonico dell’opera, che sono certo possibili, ma che non ci appaiono chiaramente dimostrati; egli menziona pure «i fatti nuovi di cui il poeta voleva tener conto nel sistema delle profezie», ed è qui che ci sembra più vicino alla verità, soprattutto quando aggiunge: «ad esempio, la morte del papa Clemente V, avvenuta nel 1314, allorché l’Inferno, nella sua prima redazione, doveva essere terminato». Infatti la vera ragione, ai nostri occhi, sono gli eventi che ebbero luogo dal 1300 al 1314, ossia la distruzione dell’Ordine del Tempio e le sue varie conseguenze;[3] del resto Dante non poté fare a meno di citare quegli eventi allorché, facendo predire da Ugo Capeto i crimini di Filippo il Bello, dopo aver parlato dell’oltraggio che costui fece subire «nel vicario suo Cristo», prosegue in questi termini:

Veggio il nuovo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.[4]

E, cosa più sorprendente, la strofa che segue contiene, in chiari termini, il Nekam Adonai[5] dei Kadosch Templari:

O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo segreto?[6]

Sono questi, certamente, i «fatti nuovi» di cui Dante dovette tener conto, e ciò per motivi diversi da quelli cui si può pensare quando si ignori la natura delle organizzazioni alle quali apparteneva. Queste organizzazioni, che discendevano dall’Ordine del Tempio e che certo raccolsero una parte del suo retaggio, dovettero allora dissimularsi con molta maggiore cura rispetto a prima, soprattutto dopo la morte del loro capo esteriore, l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, del quale Beatrice aveva indicato in anticipo a Dante la collocazione nel più alto dei Cieli.[7] Di conseguenza era opportuno nascondere il segno «di riconoscimento» al quale abbiamo accennato: le divisioni del poema in cui il numero 11 appariva più chiaramente dovevano essere non soppresse ma rese meno visibili, in modo da essere scoperte solo da coloro che ne conoscessero la ragion d’essere e il significato; e, se si pensa che sono trascorsi sei secoli prima che la loro esistenza fosse pubblicamente segnalata, bisogna riconoscere che le precauzioni volute sono state ben prese e non prive di efficacia.[8]
Per altro verso, mentre operava questi cambiamenti nella prima parte del suo poema, Dante ne approfittava per introdurvi nuovi riferimenti ad altri numeri simbolici; ed ecco ciò che ne dice Benini: «Dante immaginò allora di regolare gli intervalli fra le profezie e altri passaggi salienti del poema, in modo che questi ultimi si corrispondessero l’uno all’altro dopo numeri determinati di versi, scelti naturalmente fra i numeri simbolici. Insomma, fu un sistema di consonanze e di periodi ritmici sostituito ad un altro, ma molto più complicato e segreto di quello, come si conviene al linguaggio della rivelazione parlato da esseri che vedono l’avvenire. Ed ecco apparire i famosi 515 e 666, di cui è piena la trilogia: 666 versi separano la profezia di Ciacco da quella di Virgilio, 515 la profezia di Farinata da quella di Ciacco; 666 si interpongono ancora fra la profezia di Brunetto Latini e quella di Farinata, e ancora 515 fra la profezia di Nicola III e quella di messere Brunetto». Quei numeri 515 e 666, che vediamo alternarsi così regolarmente, si oppongono l’uno all’altro nel simbolismo adottato da Dante: in effetti sappiamo che 666 è nell’Apocalisse il «numero della bestia», e che si sono fatti innumerevoli calcoli, spesso fantasiosi, per trovare il. nome dell’Anticristo, di cui esso deve rappresentare il valore numerico, «infatti (quel numero) è un nome d’uomo»;[9] invece il 515 è enunciato esplicitamente, con un significato esattamente opposto al primo, nella predizione di Beatrice: «… un cinquecento diece e cinque, messo di Dio …».[10] Si è pensato che il 515 fosse la stessa cosa del misterioso «Veltro», nemico della lupa che si trova così identificata con la bestia apocalittica;[11] e si è persino immaginato che ambedue i simboli designassero Arrigo di Lussemburgo.[12] Non intendiamo discutere qui il significato del «Veltro»,[13] ma non crediamo che vi si debba vedere un’allusione a un personaggio preciso; a nostro avviso si tratta soltanto di uno degli aspetti dell’idea generale di Dante sull’Impero.[14] Benini, osservando che il numero 515 si trascrive in lettere romane con DXV, interpreta queste lettere come delle iniziali di «Dante, Veltro di Cristo»; ma questa interpretazione è assai forzata, e d’altronde niente autorizza a pensare che Dante abbia voluto identificare se stesso con quell’«inviato di Dio». In realtà, basta cambiare l’ordine delle lettere numeriche per avere DVX, cioè la parola Dux, che si comprende senza spiegazioni;[15] e aggiungeremo che la somma delle cifre di 515 dà ancora il numero 11:[16] il Dux può essere Arrigo di Lussemburgo, ma è anche, allo stesso titolo, qualsiasi altro capo scelto dalle medesime organizzazioni per realizzare il fine che si erano assegnate nel campo sociale, e che la Massoneria scozzese chiama ancora il «regno del Sacro Impero».[17]


[1] Per la restituzione della Cantica dell’Inferno alla sua forma primitiva, in «Il nuovo patto», settembre-novembre. 1921, pp. 506-532. 
[2] Il terzo «movimento elementare», quello dell’accrescimento, è rappresentato da 1000; e la somma dei tre numeri simbolici è 1022, che i «savi d’Egitto», secondo Dante, consideravano come il numero delle stelle fisse. 
[3] È interessante osservare la successione di queste date: nel 1307 Filippo il Bello, d’accordo con Clemente V, fece imprigionare. il Gran Maestro e i principali dignitari dell’Ordine del Tempio (72 di numero, si dice, ed è anche questo un numero simbolico); nel 1308 Arrigo del Lussemburgo viene eletto imperatore; nel 1312 l’Ordine del Tempio è ufficialmente abolito; nel 1313 l’imperatore Arrigo VII muore misteriosamente, certo avvelenato; nel 1314 ha luogo l’esecuzione dei Templari dopo un processo durato sette anni; lo stesso anno il re Filippo il Bello e il papa Clemente V, muoiono a loro volta. 
[4] Purgatorio, XX, 91-93. Il movente di Filippo il Bello è per Dante l’avarizia, la cupidigia; forse vi è una relazione più stretta di quanto si potrebbe supporre tra due fatti imputabili a questo re: l’eliminazione dell’Ordine del Tempio e l’alterazione delle monete. 
[5] In ebraico queste parole significano: «Vendetta, o Signore!». Adonai si dovrebbe tradurre più letteralmente con «mio Signore», e si osserverà che esattamente così viene reso nel testo di Dante.
[6] Purgatorio, XX, 94-96.
[7] Paradiso, XXX, 124-148. Questo passo è precisamente quello in cui si parla del «convento de le bianche stole». Le organizzazioni di cui si tratta avevano scelto come parola d’ordine Altri, che Aroux (Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste, cit., p. 227) interpreta così: Arrigo Lucemburghese, Teutonico, Romano Imperatore; noi pensiamo che la parola Teutonico sia inesatta e debba essere sostituita con Templare. È vero peraltro che doveva esistere un certo rapporto tra l’Ordine del Tempio e quello dei Cavalieri teutonici; non è senza ragione che essi furono fondati quasi contemporaneamente, il primo nel 1118 e il secondo nel 1128. Aroux suppone che la parola «altri» possa essere interpretata come è detto in un certo passo di Dante (Inferno, IX, 9), e che parimenti la parola «tal» (Inferno, VIII, 130 e IX, 8) si possa tradurre con Teutonico Arrigo Lucemburghese.
[8] Il numero 11 è stato conservato nel rituale del 33° grado scozzese, dove è strettamente associato alla data dell’abolizione dell’Ordine del Tempio, calcolata secondo l’èra massonica e non secondo l’èra volgare.
[9] Apocalisse, 13, 18.
[10] Purgatorio, XXXIII, 43-44.
[11] Inferno, I, 100-111. Si sa che la lupa fu dapprima il simbolo di Roma, ma che fu sostituita dall’aquila nell’epoca imperiale.
[12] E. G. Parodi: Poesia e Storia nella Divina Commedia, Napoli, 1920.
[13] Il «Veltro» è un cane, un levriere, e Aroux suggerisce la possibilità di una sorta di gioco di parole fra cane e Khan, il titolo dato dai Tartari ai loro capi; così, un nome come Can Grande della Scala, il protettore di Dante, potrebbe avere avuto un doppio significato. Questo accostamento non ha niente di inverosimile, giacché non è l’unico esempio che si possa trovare di un simbolismo basato su una somiglianza fonetica; aggiungiamo anzi che, in diverse lingue, la radice can o kan significa «potenza», il che rientra nello stesso ordine di idee.
[14] L’Imperatore, quale lo concepisce Dante, è del tutto simile al Chakravartî o monarca universale degli indù, la cui funzione essenziale è far regnare la pace, sarvabhaumika, cioè estesa a tutta la terra; vi sarebbero anche dei confronti da fare tra questa teoria dell’Impero e quella del Khalifat in Mohyiddin.
[15] Si può d’altronde osservare che questo Dux è l’equivalente del Khan tartaro.
[16] Così, le lettere DIL, le prime della frase Diligite iustitiam..., che sono dapprima enunciate separatamente (Paradiso, XVIII, 78), valgono 551, che è formato dalle stesse cifre di 515, poste in un altro ordine e che si riduce ugualmente a 11. 
[17] Certi Consigli Supremi scozzesi, in particolare quello del Belgio, hanno però eliminato dalle loro Costituzioni e dai loro rituali l’espressione «Sacro Impero», ovunque si trovasse. Vediamo in ciò il segno di una singolare incomprensione del simbolismo fin nei suoi elementi più fondamentali, e questo dimostra a quale grado di degenerazione siano arrivati, anche ai gradi più alti, certi settori della Massoneria contemporanea.

Nessun commento:

Posta un commento