"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 7 gennaio 2017

Titus Burckhardt, Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam - III - La Realizzazione Spirituale - La Contemplazione

Titus Burckhardt
Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam

I - La Realizzazione Spirituale
La Contemplazione

Secondo Muhyi-d-dîn ibn 'Arabî lo «stato spirituale» (al-hâl), cioè l'illuminazione improvvisa del cuore, è causata dall'azione reciproca dell'«irraggiamento» (at-tajallî)[1] divino e dalla «predisposizione» (al-isti'dâd) del cuore, due poli, ognuno dei quali sembrerà determinante o determinato, secondo la prospettiva dalla quale ci si pone.
Di fronte alla Realtà divina, non-formale ed onnipresente che non può essere definita da alcuna qualità, il carattere particolare di uno stato spirituale può essere attribuito soltanto alla predisposizione del cuore, ossia alla ricettività innata ed intima dell'anima, secondo il famoso detto di al-Junayd: «Il colore dell'acqua è il colore del suo recipiente».
D'altronde, la predisposizione del cuore è solo pura potenzialità; essa non può essere conosciuta fuori dell'irradiazione divina, poiché la potenzialità può essere indagata soltanto nella misura in cui i suoi contenuti si attuano. È l'irradiazione ad attuare la predisposizione; è lei a conferire allo stato spirituale la sua qualità intelligibile; - è «evidente per sé stesso», dice Ibn 'Arabî - poiché vi si afferma immediatameme e positivamente come un «nome» o un «aspetto» divino, mentre la predisposizione in quanto tale rimane «la cosa piu nascosta», come scrive il nostro autore ne La Sagesse des Prophètes (capitolo su Seth).
Secondo quest'ultimo aspetto delle cose, non c'è quindi niente nella ricettività del cuore che non sia la risposta all'irradiazione o rivelazione divina di cui subisce di volta in volta le folgorazioni; queste variano secondo i diversi «aspetti» o «nomi» di Dio, e questo processo non si esaurisce mai, né da parte dell'irradiazione divina, essenzialmente inesauribile, né da parte della plasticità primordiale del cuore.
Ibn 'Arabi si pone alternativamente dall'uno e dall'altro di questi due punti di vista: da un lato, afferma che il «contenuto» divino dell'illuminazione è inafferrabile e che solo la «forma» ricettiva del cuore - «forma» che sboccia dalla predisposizione innata dell'essere - conferisce all'irradiazione la sua qualità o la sua «colorazione»; dall'altro, dice che la «forma» che il cuore assume durante la contemplazione di Dio aderisce interamente alle modalità d'irradiazione. Ciò che il recipiente può imporre all'irraggiamento divino è dunque soltanto un limite, che è nullo· rispetto al suo contenuto qualitativo: ciò che si manifesta in esso - e, in un certo senso, per mezzo suo - altro non è che una Qualità (sîfah) o una Realtà (Haqîqah) divina inclusa nell'Essenza una ed infinita. I due punti di vista in apparenza si contraddicono, perché uno si riferisce alla manifestazione di Dio nelle Qualità universali, essendo tale manifestazione in qualche modo «oggettiva», mentre l'altro si rivolge alla realtà «soggettiva» dell'Essenza. Ibn 'Arabî scrive a questo proposito (ibid., capitolo su Jetro): «…il cuore dello gnostico (al-'ârif[2] possiede una tale vastità che Abu Yazîd al-Bistâmi diceva di esso: se il Trono divino, con tutto ciò che lo circonda si trovasse cento milioni di volte in un angolo del cuore dello gnostico, questi non lo sentirebbe; e Junayd afferma ugualmente: se l'effimero e l'eterno si congiungono, non rimane piu traccia del primo; ora come potrebbe il cuore che contiene l'eterno sentire l'esistenza dell'effimero? – Ma l'irradiazione divina può mutar forma; occorre quindi che il cuore si allarghi o si contragga secondo quest'irradiazione, poiché non può in alcun modo sottrarsi alle modalità di essa… Questo rappresenta il contrario di ciò che pensavano gli uomini della nostra Via quando dicevano che Dio si rivela nella misura della predisposiziooe dell'adoratore; non è così infatti che noi l'intendiamo: l'adoratore si manifesta a Dio secondo la 'forma' con cui Dio gli si rivela (tajallâ)». La predisposiziooe, spiega poi il maestro, ha il suo fondamento nell'essenza (al-'ayn-ath-thâbitah) dell'essere; è dunque l'espressione di ciò che questo stesso essere è in quanto possibilità permanente, contenuta in Dio. In tal senso, il «cuore» cioè il «nucleo» essenziale ed imperituro dell'essere, riceve la sua «predisposizione» nello stato prindpiale di non-manifestazione (al-ghayb): Dio gliela «comunica» nel mistero della Aseità (al-huwiyah) pura, poi Si rivela a lui in modo «oggettivo» imprimendogli le «forme» dei Suoi «nomi» o «aspetti»: «…in modo che l'uno veda l'altro e che il cuore si manifesti a sua volta con l'aspetto di ciò che ad esso si rivela…» (ibid.). Cosi la polarità spirituale dell'«irradiazione» e della «predisposizione» è riducibile, in sostanza, alla polarità puramente metafisica dell'Essere (al-Wujûd) e delle «essenze immutabili» (al-a'yân ath-thâbitah) incluse nell'«abisso» non-manifestato dell'Essenza.
L'Essere «trabocca» (afâda) nelle essenze immutabili in quanto esse pongono implicitamente le distinzioni o limitazioni che costituiscono il mondo; ma queste distinzioni non sono nulla di per sé stesse, non aggiungono nulla alla luce dell'Essere, cosi come le essenze immutabili non sono qualcosa che si distingua veramente dall'Essenza una (adh-Dhât). D'altra parte, rifrangendo l'Essere, le possibilità relative, contenute negli archetipi, si realizzano secondo i loro diversi modi, e rispetto a queste stesse possibilità relative l'Essere divino Si polarizza a Sua volta in molteplici aspetti personali. È sottinteso che tale visione totale delle cose non ha nulla in comune con una spiegazione psicologica e nemmeno con una spiegazione alchemica o mistica; ha soltanto il senso di una chiave intellettuale che aiuti ad oltrepassare l'antitesi tra soggetto ed oggetto.
Considerata secondo questa prospettiva, la «predisposizione del cuore», la sua attitudine a ricevere una tale rivelazione divina, non si riduce dunque alla psicologia, tuttavia possiede un certo aspetto psicologico che apparirà come l'ombra di ciò che essa è per essenza. Si possono cogliere alcune modalità della predisposizione in una visione retrospettiva, si può aderirvi per mezzo di simboli, ma questi non sono che percezioni imperfette[3]; nella sua totalità, si sottrarrà sempre all'influsso della coscienza. Si può conoscere la «predisposizione» direttamente soltanto mediante la sua integrazione intellettuale nell'archetipo[4], integrazione che oltrepassa ogni ordine creato: «…Infatti è evidentemente al di là delle facoltà della creatura in quanto tale… conoscere per mezzo della Conoscenza divina, che comprende gli archetipi (al-a'yân ath-thâbitah) nel loro stato di non-manifestazione non essendo questi archetipi che pure relazioni [all'interno] dell'Essenza, e senza forme… [La conoscenza diretta della predisposizione innata dell'essere è dunque possibile soltanto grazie ad una partecipazione di questo alla Conoscenza divina], partecipazione che rappresenta un aiuto divino predestinato a questo essere… in virtù di un certo contenuto della propria essenza immutabile…» (ibid., capitolo su Seth).
***
La conoscenza del proprio archetipo altro non è che quella del Sé (Atman), secondo un'espressione tratta dalla dottrina indù, o dell'Aseità o Ipseità (al-huwiyah), secondo un'espressione sufica. Questa conoscenza può chiamarsi divinamente «soggettiva» poiché suppone l'identificazione - definitiva o incidentale - dello spirito con il «Soggetto» divino, e perché Dio non vi si presenta come l'«oggetto» della contemplazione o della conoscenza; al contrario, il soggetto relativo, l'ego, sarà allora - nella sua possibilità principiale - «oggetto» rispetto al Soggetto universale ed assoluto, il solo che sia, per quanto tali distinzioni siano ancora valide sul «piano divino»[5]. Il «punto di vista» proprio della conoscenza del Sé è dunque, in un certo senso, il contrario di quello implicato dalla contemplazione «oggettiva» di Dio, nei Suoi Nomi e nelle Sue Qualità, sebbene non si possa collegare quest'ultima «visione» col soggetto relativo in quanto tale, poiché, in realtà, non siamo noi a contemplare Dio, ma è Dio Stesso che Si contempla nelle Sue Qualità di cui noi siamo sostegni di manifestazione.
Nella Sua Essenza (Dhât) infinita ed impersonale, Dio non può divenire «oggetto» d'alcuna conoscenza. Egli resta sempre il testimone (shahîd) implicito di ogni atto conoscitivo, ciò per cui o in cui ogni essere si conosce: «Gli sguardi non Lo raggiungono, mentre Lui raggiunge gli sguardi» (Corano, VI, 102). Il Testimone divino non può essere «colto» , poiché è Lui a «cogliere» ogni cosa; cosi, l'identilicazione spirituale con il Soggetto divino procede dal Soggetto stesso, la qual cosa è espressa da Ibn 'Arabî quando dice che si realizza «in virtu di un certo contenuto dell'essenza immutabile di tale essere, contenuto che questo riconoscerà non appena Dio glielo mostrerà», ciò vuoi dire che la conoscenza di se stessi deriva dal «Sé»[6]. L'identificazione spirituale con il Soggetto divino ha tuttavia le proprie prcligurazioni intellettuali, che anticipano, in un certo senso, la sua realizzazione effettiva, la quale può avere dei gradi di attuazione nell'uomo, benché l'identificazione essenziale non implichi, di per sé, alcuna gradazione; in tutti i gradi il soggetto relativo sarà «oggettivato» in modo più o meno perfetto[7].
«L'Essenza (adh-Dhât) - afferma Ibn 'Arabî - si 'rivela' soltanto nella 'forma' della predisposizione dell'Essere, che riceve questa 'rivelazione'; non accade mai diversamente. Perciò, l'essere che riceve la 'rivelazione' essenziale (Tajallî dhâti) vedrà nello specchio divino soltanto la propria 'forma'; non vedrà Dio – è impossibile che Lo veda - pur sapendo che vede la propria 'forma' solo in virtù di quello specchio divino. Ciò è del tutto analogo a quanto accade in uno specchio fisico: contemplandovi delle forme, tu non vedi lo specchio, pur sapendo che vedi queste forme - o la tua forma - solo grazie allo specchio. Dio ha manifestato questo fenomeno quale simbolo particolarmente appropriato alla Sua rivelazione essenziale, perché colui al quale Dio si rivela sappia che non Lo vede ... Sforzati quindi di vedere lo specchio, mentre guardi la forma che vi si riflette: non li vedrai mai contemporaneamente. Questo è talmente vero che alcuni, osservando questa legge della riflessione negli specchi [fisici e spirituali], hanno sostenuto che la forma riflessa s'interponga tra la vista di colui che contempla e lo specchio stesso; questo è il massimo che hanno colto nella sfera della conoscenza intellettuale; ma, in realtà, le cose stanno come abbfamo detto» - cioè, la «forma» riflessa non cela sostanzialmente lo specchio, perché questo manifesta la forma, e perché sappiamo implicitamente che la vediamo soltanto in virtù dello specchio. La prospettiva spirituale proprio di questo simbolismo è analoga a quella del Vedanta: l'impossibilità di cogliere «oggettivamente» lo specchio mentre vi contempliamo la nostra immagine esprime il carattere inafferrabile del «Soggetto» assoluto, Atman, di cui ogni cosa, compreso il soggetto individuale, è solamente una «aggettivazione» illusoria. Come l'espressione «Soggetto» divino, così il simbolo dello specchio rappresenta una polarità, mentre l'Essenza oltrepassa ogni dualismo di «soggetto» e di «oggetto»; ma nessun simbolo può esprimere ciò.
Ibn 'Arabî continua: «Se assapori questo, [cioè Che l'essere contemplante non vede mai l'essenza stessa, ma la propria 'forma' nello specchio dell'Essenza], tu assapori l'estremo limite che la creatura possa raggiungere; non aspirare dunque oltre e non affaticare la sua anima per superare tale grado [in modo 'oggettivo'] poiché a quel punto, in principio ed in conclusione, vi è solo pura non-esistenza…». - Questo non significa che l'Essenza non può essere conosciuta: «Alcuni di noi ignorano la conoscenza diretta di Dio e citano a questo proposito il detto del califfo Abu Bekr: 'Cogliere la propria impotenza a conoscere la conoscenza è una conoscenza'[8]; ma vi è tra noi qualcuno che conosce veramente e non si esprime cosi, perché la sua conoscenza non implica alcuna impotenza nel conoscere; essa implica l'inesprimibile» (ibid., capitolo su Seth).
La nostra spiegazione è riassunta con queste parole dal maestro: «Dio è dunque lo specchio nel quale vedi te stesso, come tu sei il Suo specchio nel quale Egli contempla i Suoi Nomi; e questi non sono altro che Lui, cosicché l'analogia dei rapporti è invertita» (ibid., capitolo su Seth).

Fine







[1] Abbiamo già fatto notare che at-tajallî significa al tempo stesso «irraggiamento», «rivelazione» e «svelamento». Per capire il legame tra l'idea di «svelamento» e quella di «irraggiamento», bisogna ricordare l'immagine del sole che diffonde i suoi raggi non appena le nuvole si diradano; la stessa ambivalenza di aspetti è pure presente nel versetto coranico: «Per la notte quando ricopre, e per il giorno quando svela (tajallâ) - o: quando irraggia» - (Sura della Notte, XCII).
[2] Ustamo il termine «gnostico» secondo il suo significato etimologico, e secondo l'intendimento dei Padri della Chiesa, come san Clemente d' Alessandria, prescindendo dalla sua utilizzazione nei riguardi di talune sette
[3] Queste «percezioni» hanno qualche relazione con ciò che il Buddhismo descrive come la memoria delle esistenze precedenti alla vita terrena dell'individuo.
[4] Dal punto di vista principiale, la potenzialità è riducibile alla possibilità, la quale è permanente - non potenziale - nell'Intelletto divino.
[5] Lo sono nella loro realtà principiale, ma non in ciò che comportano di limitativo, psicologicamente e materialmente, sul piano della creatura. Nell'ordine principiale il «soggetto» e l'«oggetto» sono i due poli di ogni conoscenza, cioè il «conoscente» (al-'âqil) e il «conosciuto» (al-ma'qûl).
[6] Anche nella dottrina del Vedanta, il Soggetto assoluto si chiama il «testimone» (Sâkshin).
[7] L'oggettivazionc metodica del proprio soggetto relativo - l'ego empirico - e l'identificazione essenziale con il «punto di vista» del Soggetto divino sono indicati in questa definizione - già citata - della virtù spirituale (al-ihsân): «Adora Dio come se Lo vedessi, e se non Lo vedi, Egli tuttavia vede te» (hadîth Jabrâil).
[8] Secondo il suo significato piu profondo, questa sentenza è simile alla discriminazione vedantica tra il «Soggetto» puro, Atman, e la sua illusoria «aggettivazione» come soggetro individuale o jiva.

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