"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 6 settembre 2017

Franco Peregrino, La fine dei Templari e le sue conseguenze

Franco Peregrino
La fine dei Templari e le sue conseguenze

Nel nostro precedente articolo[1] abbiamo riportato una serie di notizie che, a nostro modo di vedere, testimoniano l’esistenza di un notevole movimento di natura iniziatica operante, all’epoca dell’Ordine del Tempio, nei campi più diversi in seno al mondo cristiano.
Lo scopo perseguito da questo movimento, dicevamo, era quello di permeare e illuminare l’Occidente, e un ruolo centrale, in esso, veniva giocato proprio da quei Templari che erano stati salutati come i «Pilastri del mondo».
Avevamo pure accennato all’esistenza di certe altre forze che a questo disegno si opponevano, e siamo dell’idea che fu proprio il loro «lavorìo» che, prendendo di mira ciò che veniva evidentemente considerato come il cuore di tale movimento, determinò la chiusura del ciclo storico dei Templari.
L’evento che segnò materialmente la fine della presenza templare in Terra Santa fu la caduta di San Giovanni d’Acri, avvenuta nel 1291; la perdita dell’importante città portuale, l’ultima ancora capace di garantire un adeguato approvvigionamento, li costrinse infatti ad abbandonare le loro ultime isolate roccaforti, divenute ormai strategicamente indifendibili, e a ripiegare quindi le residue forze su Cipro.
Un epilogo tutt’altro che imprevedibile, se si tiene conto che era fin dalla metà del Duecento che nei territori di Outremer veniva protraendosi una situazione assai delicata. Le richieste d’aiuto che il Tempio rivolgeva al papato in modo sempre più pressante, rimanevano disattese ormai da troppo tempo. Quale fosse il conseguente stato d’animo dei Templari è possibile desumerlo da un episodio che riporta Peter Partner: «La dissipazione delle risorse papali nella guerra italiana dei Vespri, sottratte alla sacra impresa della crociata, era una fonte ininterrotta di insoddisfazione; secondo un cronista, un Templare chiamato Guido, che era un delegato presso la Santa Sede due o tre anni prima della caduta di Acri, aveva rivolto aspri rimproveri al papa a questo proposito»[2].
Basta questo per concludere che le divisioni che allora stavano lacerando l’Occidente furono quelle che provocarono l’abbandono dell’Ordine del Tempio alla propria sorte? Pur senza nulla togliere al loro peso, noi pensiamo che la vera causa sia da ricercare altrove. Non è forse vero che già un secolo prima, all’incirca, da più parti all’interno della stessa Chiesa affiorava un certo malcontento nei riguardi del Tempio? Sappiamo che in Italia, per esempio, si verificò un mutamento nei rapporti intercorrenti tra una parte non indifferente delle istituzioni ecclesiastiche e le commende templari. Secondo quanto riferisce Fulvio Bramato, «i vescovi manifestarono una crescente ostilità nei confronti dell’Ordine templare, alimentata da quanti, come Giovanni di Salisbury, cominciavano a denunciare la cupidigia e avarizia dei cavalieri rossocrociati. Il papato pur mostrando di tener conto degli umori antitemplari diffusi presso taluni ambienti del mondo ecclesiastico, nei fatti continuò ad adottare nei confronti della Militia Dei la politica inaugurata da Innocenzo II»[3]. E con il passar degli anni non sembra che la citata ostilità si sia minimamente placata, visto che nel corso del concilio Laterano del 1179 si giunse, addirittura, a un vero e proprio scontro aperto, in conseguenza del quale l’Ordine fu costretto a restituire sia le decime sia le chiese acquisite nei precedenti dieci anni. Ma nemmeno questo provvedimento papale riuscì a calmare le acque e bisogna anzi ritenere che l’agitazione continuasse a montare dato che, più avanti, Innocenzo III dovette intervenire più volte a difesa del Tempio contro «[…] coloro che fin dal concilio Laterano II tramavano a suo danno»[4]. Questi pochi cenni aiuteranno forse a chiarire che le cose sono in realtà ben più complesse di quel che si sarebbe tentati di credere a prima vista.
Ma cosa si nascondeva effettivamente dietro queste tendenziose accuse di «cupidigia e avarizia»? Vero è che esse sapevano toccare il tasto giusto per indurre le «genti grosse» ad agire in una determinata direzione, senza neanche sospettare quale fosse il vero disegno che così assecondavano. Abbiamo detto tendenziose, ma potremmo tranquillamente qualificarle come pretestuose, poiché è fin troppo evidente che una delle finalità dell’espansione templare in Occidente era proprio quella di generare le necessarie risorse al fine di sostentare l’enclave in Terra Santa. Sotto questo profilo, non possiamo non pensare che lo scopo perseguito da coloro che così soffiavano sul fuoco sia stato quello di minare, attraverso il progressivo indebolimento di queste risorse, la posizione in Oltremare dell’Ordine del Tempio. Non va trascurato, infatti, che perdendo tale insediamento sarebbe venuta a mancare la stessa ragion d’essere di quelli che ufficialmente ne erano i «custodi». Faremo inoltre osservare che «tramando a danno del Tempio» costoro entravano in collisione non solo con le disposizioni papali dell’epoca, ma anche – e per noi questo è estremamente significativo – con il volere stesso di un Padre della Chiesa come San Bernardo, il quale non a caso verrà poi scelto da Dante come guida negli ultimi cerchi del Paradiso.
Sulla levatura dell’abate di Chiaravalle sarà forse opportuno riproporre qui, al fine di chiarire meglio la nostra affermazione, il giudizio che ne dà René Guénon, avvertendo i nostri lettori che la terminologia impiegata dall’autore, in questo caso, deriva dal fatto che lo studio da cui traiamo questo brano era destinato in origine a far parte di un’opera collettiva consacrata alle grandi figure della santità cattolica. Il passo in questione dice così: «La dottrina di San Bernardo è essenzialmente mistica; con ciò intendiamo dire che egli prende soprattutto in considerazione le cose divine sotto l’aspetto dell’amore, amore che sarebbe però sbagliato interpretare qui in un senso semplicemente affettivo come fanno i moderni psicologi. Al pari di molti grandi mistici Bernardo fu attirato in modo particolare dal Cantico dei Cantici, il quale fu da lui commentato in numerosi sermoni che costituiscono una serie prolungantesi lungo quasi tutta la sua carriera; tale commento, rimasto sempre incompiuto, descrive tutti i gradi dell’amore divino, fino alla pace suprema alla quale l’anima giunge nell’estasi. Lo stato estatico, qual è da lui compreso e che egli ha certamente provato, è una sorta di morte alle cose di questo mondo; insieme con le immagini sensibili scompare ogni sentimento naturale; nell’anima stessa tutto è puro, così come nel suo amore. Un simile misticismo non poteva mancare di riflettersi nei trattati dogmatici di San Bernardo; il titolo di uno dei suoi trattati più importanti, De diligendo Deo, mostra in effetti a sufficienza quale posto vi occupi l’amore; ma ci si sbaglierebbe a credere che ciò avvenga a scapito dell’intellettualità vera. Se l’abate di Clairvaux volle sempre estraniarsi dalle vane sottigliezze dell’accademia, la ragione ne era che non aveva bisogno dei laboriosi artifici della dialettica; egli risolveva di primo acchito le più ardue questioni perché il suo modo di procedere non passava attraverso una lunga serie di operazioni discorsive; a ciò a cui i filosofi cercano di giungere per una via contorta e quasi a tentoni, egli arrivava con immediatezza, per via di intuizione intellettuale; intuizione in assenza della quale nessuna metafisica è possibile e fuori dalla quale non si può afferrare se non l’ombra della verità»[5]. Una tale intellettualità lo collocava perciò ben al di sopra del solo orizzonte exoterico, cosa che traspare certe volte in modo particolarmente chiaro nei suoi scritti. Lo si può constatare, per esempio, da questo brano che estraiamo dal trattato De laude novæ militiæ da lui redatto, per l’appunto, a uso dei Templari: «[L’uomo perfetto] non parla mai della saggezza di Dio […] se non al cospetto dei “perfetti”, e non propone le cose spirituali se non a coloro che “spirituali” sono […]»[6].
Tornando al punto da cui eravamo partiti per fare questa lunga digressione, possiamo ora affermare che, a nostro modo di vedere, coloro che si accanivano contro il Tempio, contrapponendosi così alla posizione manifestata da Bernardo di Chiaravalle, non potevano che rappresentare la reazione degli «orbi nello spirito» nei confronti di quell’opera di rinnovamento spirituale che – come ricordavamo all’inizio di questo scritto –, veniva allora portata avanti in Occidente dagli iniziati. Un simile combattimento dovette svolgersi prima di tutto all’interno stesso della Chiesa, cosa che può desumersi da quanto abbiamo riportato più sopra; ma ciò non vuol dire che non fosse coinvolta anche una fascia più o meno estesa del mondo laico, e a questo riguardo basta pensare quanto abbia pesato il suo intervento nell’atto conclusivo della tragedia templare.
Sia quel che si vuole di questa ipotesi, che abbiamo voluto per lo meno abbozzare qui affinché i lettori possano seguire meglio il filo del nostro discorso, il fatto è che, verso la fine del secolo XIII, venivano ormai messe in circolazione le dicerie più abominevoli sul conto dei fratelli del Tempio, dicerie questa volta assai pericolose, poiché si parlava apertamente di eresia. Ma, quando si constata che questo dilagare di calunnie veniva praticamente a coincidere con il definitivo annientamento dei Catari[7], non è lecito nutrire qualche sospetto? Nuvole nerissime si andavano dunque addensando sui Templari, preannunciando la tempesta che di lì a poco si sarebbe abbattuta su di loro e li avrebbe spazzati via definitivamente dalla scena. Un altro avvenimento che secondo noi desta forti sospetti è l’attacco che, nel 1306, Filippo il Bello decise di lanciare contro gli Ebrei del suo regno, «sorretto dalla convinzione che [essi] profanassero di continuo le ostie consacrate»[8]; dopo essere stati miseramente schiacciati dall’Inquisizione, essi vennero infine cacciati via dal paese. Che il re di Francia ne abbia tratto, come abitualmente viene rilevato, un lauto profitto per il proprio tesoro è fuor di dubbio; ciò non esclude, però, che alla radice di un’azione del genere non vi possano essere ragioni ben più profonde di quella esclusivamente di ordine finanziario, cosa tutt’altro che inverosimile se si tiene conto del ruolo che anche i cabalisti giocavano nel suddetto movimento iniziatico.
Lo stesso anno Clemente V convocava in Francia il Gran Maestro del Tempio, ufficialmente per consultarlo sui preparativi di una nuova crociata in Terra Santa, crociata la cui preparazione, del resto, non sembra essere stata mai neanche intrapresa. A prescindere dai lati oscuri che una tale motivazione presenta – come non mancherà di notare chiunque abbia seguito con un po’ d’attenzione quanto è stato detto sinora –, il fatto è che, per questa vicenda, agli inizi del 1307, Giacomo de Molay andò a cacciarsi proprio nella tana del lupo: ora, infatti, sarebbe stato possibile sferrare il colpo di grazia all’intero Ordine, cosa altrimenti impensabile. Poco più avanti si registra un altro fatto veramente strano: in Francia si scatena una specie di «caccia alle streghe» nei confronti di parecchi uomini di corte, i quali, tutto a un tratto, vengono inspiegabilmente accusati di stregoneria; ed è ancora più strano che provvedimenti dello stesso genere siano stati successivamente adottati, come nota il Partner[9], nella corte pontificia e in quella inglese. Considerato il «tempismo» con cui fu portata a conclusione una tale epurazione, non saremmo troppo sorpresi di apprendere che gli uomini colpiti facessero parte proprio del movimento iniziatico legato al Tempio, e questo è un punto che, a nostro modo di vedere, meriterebbe di essere approfondito dagli storici. «Nel frattempo – afferma Georges Bordonove – la calunnia si diffondeva e si gonfiava di mese in mese. Talmente ripugnante che, ormai, i Templari non poterono ignorarla. Per mettervi fine, Giacomo de Molay chiese al papa di promuovere un’inchiesta (24 agosto 1307)»[10]. Si dice abitualmente che «quando la volpe vede la lepre in trappola arriva di corsa; ma non per aiutarla»: in effetti, tale richiesta venne prontamente accolta, ma la risposta che ne derivò, contrariamente a quanto si aspettava il Gran Maestro, si sarebbe rivelata mortale per lui e per il suo Ordine.
L’alba di venerdì 13 ottobre 1307, con una vasta retata condotta simultaneamente in tutto il regno, le guardie del re di Francia procedettero all’arresto di tutti quei fratelli dell’Ordine su cui riuscirono a mettere le mani. Facciamo osservare che soltanto il giorno prima «Giacomo de Molay sosteneva la coltre mortuaria tra i principi del sangue, alle esequie della cognata di Filippo il Bello[11] e che lo stesso giorno dell’arresto, il tesoriere del Tempio partecipava alla seduta dello Scacchiere che si teneva a Rouen[12]. Citiamo questi fatti perché sono sufficientemente illustrativi della cautela e della segretezza che avvolgevano l’intera operazione; operazione che, preceduta da tutta una serie di misure precauzionali, presenta tutte le caratteristiche di un «colpo di stato», se possiamo dire così, nei confronti di quella che noi abbiamo detto essere la gerarchia iniziatica. Tuttavia, è ragionevole pensare che i Templari – i quali certamente non potevano essere degli sprovveduti – avessero più di un sentore di ciò che stava per accadere, cosa che potrebbe spiegare perché un certo numero di essi, nonostante tutte le precauzioni prese dai «golpisti», sia riuscito a sottrarsi alla trappola. In effetti, P. Partner ritiene che di tutti coloro che nell’intero regno furono posti agli arresti, non più di cinquanta o cento fossero cavalieri[13].
L’operazione, peraltro autorizzata dall’inquisitore papale in Francia, veniva giustificata con l’accusa di eresia. E anche se in un tale caso la normale procedura prevedeva che fosse una corte ecclesiastica a dover agire, non ci vuol molto per capire che contro l’Ordine templare una simile procedura si sarebbe rivelata in pratica inadempibile. Come reagì Clemente V? Egli manifestò tutta la sua disapprovazione a Filippo, e si affrettò a far pervenire a De Molay e agli altri dignitari imprigionati le proprie rassicurazioni, proclamando loro, come riferisce Denys Roman, «le sue migliori garanzie che il tutto si sarebbe risolto felicemente, rincuorandoli e ammonendoli a deporre ogni pensiero di fuga»[14]. E intanto «i nostri», come poi Boccaccio li avrebbe fraternamente chiamati, venivano sottoposti a un trattamento brutale, davvero raccapricciante. Quanto sciagurata fosse la loro condizione, lo fa intendere il Partner con queste parole particolarmente eloquenti: «L’interrogatorio dei Templari venne interamente affidato a funzionari regi e non è nemmeno sicuro che ad alcuni interrogatori fossero presenti funzionari ecclesiastici. La tortura a cui furono sottoposti gli accusati fu di una crudeltà che parve spaventosa anche agli stessi uomini del Medioevo […]. I torturatori erano di una ferocia tale che in molte occasioni le vittime morirono prima di poter confessare. Un trattamento particolarmente atroce, a cui una vittima in un caso sopravvisse, era quello di sfregare i piedi dell’imputato con del grasso e porlo davanti al fuoco: l’accusato perse parecchie ossa dei piedi, che poté esibire come prova in una successiva fase del processo. Un altro accusato affermò che, pur di far cessare quei tormenti, avrebbe accettato anche di “uccidere Dio” e in una delle poche difese scritte dei Templari, essi si dilungano con insistenza sull’argomento»[15]. Con simili metodi non c’è da meravigliarsi, pertanto, che di lì a poco tempo le confessioni dei fratelli imprigionati iniziassero ad affluire numerose.
Ma in che cosa consistevano queste confessioni? In realtà le domande previste dall’interrogatorio-tipo erano per lo più concepite in modo da non ammettere altro che un sì o un no come risposta. E va sottolineato che le accuse più «pesanti» giravano intorno all’iniziazione. Il lettore provi a immaginare, anche solo per un momento, la situazione di quegli sventurati, i quali, mentre erano sottoposti a un atroce supplizio, venivano incalzati con domande-accusa come questa: «Dopo la cerimonia [i neofiti] sono stati condotti dietro l’altare o altrove, e costretti a rinnegare Cristo per tre volte e a sputare sulla croce?»; o questa: «Sono stati poi svestiti e baciati “sul fondo della schiena”, sotto la cintura, sull’ombelico e sulla bocca?»; o quest’altra ancora: «Cinti da una cordicella, hanno toccato una figura diabolica, adorata dagli anziani e dai dignitari?»[16]. A meno di non finire col perdere la ragione – come in effetti avvenne in più di un caso –, quando il tormento superava ogni limite di sopportazione bastava quindi un semplice assentimento per farlo cessare. E questo, a nostro modo di vedere, riduce tutte le famose «confessioni» – su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro – a un nulla di fatto. In ogni caso, ciò che non può essere messo in dubbio è che la «verità» era già stata stabilita a priori, e questo significa che la procedura seguita più che «a rendere palese la verità [tendeva] a fare di un sospetto un colpevole»: proprio in questi termini si esprimeva nel febbraio 1308 un Templare inglese[17].
Ora, torniamo a chiederci, cosa faceva frattanto Clemente V, il quale non poteva non essere al corrente di quanto accadeva, e aveva assicurato – ricordiamolo – la propria difesa ai dignitari del Tempio? A poco più di un mese da quella sua solenne promessa, egli aveva la spudoratezza di sollecitare i vari sovrani europei, con la bolla Pastoralis præeminentiæ, perché procedessero all’arresto dei fratelli del Tempio dietro l’accusa d’eresia, al fine di sottoporli poi a tortura. «La cosa interessante circa questa lettera – osserva il Partner –, datata 22 novembre 1307, è che riprende la formulazione delle procedure effettivamente adoperate contro i Templari dalla corte francese […]; egli non solo desiderava continuare con gli interrogatori dei Templari francesi, ma desiderava anche ordinare l’arresto in massa e l’interrogatorio degli altri Templari in tutto il mondo cristiano»[18]. È interessante notare, a questo proposito, che l’esortazione papale fu accolta diligentemente soltanto nei domini della Chiesa e in quegli stati soggetti alla diretta influenza della Corona francese. In Portogallo, così come in Castiglia e in Aragona, i sovrani presero al contrario apertamente le parti del Tempio. Altrove, la posizione di resistenza passiva fu meno palese: nelle Fiandre, per esempio, fu emesso un ordine di arresto che poi però nessuno si preoccupò di applicare. Edoardo II d’Inghilterra invece vi si adeguò, ma evidentemente lo fece malvolentieri, per cui si limitò a mettere agli arresti i Templari senza procedere oltre. In una parola, nel resto del mondo cristiano la volontà di Clemente V si scontrò, per noi significativamente, con un malcelato muro di opposizione e di riluttanza, e i suoi ordini vennero quindi o disattesi o eseguiti soltanto parzialmente. Sia perché avesse constatato lo scacco, sia per qualche altro motivo, il papa decise allora di cambiare tattica, e nel febbraio 1308 annunciò che la Chiesa avrebbe preso nelle proprie mani la faccenda, riservandosi di gestire personalmente il caso dei principali dignitari. Così riuscì, almeno in parte, a smuovere la situazione: solo un mese dopo venivano portati a compimento i primi arresti nelle Fiandre e in alcune zone d’Italia, come la Puglia. Ciononostante, dovrà ancora insistere con un’altra bolla, la Faciens misericordiam del 12 agosto 1308, perché in Castiglia e in Portogallo fosse presa finalmente la decisione di imprigionare i fratelli templari. Ci vollero all’incirca nove mesi, quindi, perché le prescrizioni pontificali fossero applicate in tutta la Cristianità, e questo solo per quel che riguarda l’imprigionamento.
Le nuove disposizioni stabilivano che sarebbe stato compito di un futuro concilio decidere sulla sorte del Tempio, tenendo conto delle inchieste e delle sentenze che commissioni diocesane create ad hoc avrebbero dovuto produrre nei vari stati. In Francia venne istituita una commissione pontificia incaricata di controllare le procedure contro i Templari; a capo di essa Clemente V nominò, stranamente, l’arcivescovo di Narbona, un personaggio noto per aver sostenuto pubblicamente la tesi dell’eresia templare. Una tale scelta, commenta il Partner, «era come mettere a sorveglianza di un gregge un lupo»[19]. Le deposizioni che si susseguirono nella primavera 1310 smentirono, una dopo l’altra, le pretese «confessioni» estorte nel 1307. Pietro di Bologna, già procuratore generale dell’Ordine presso la Santa Sede, sollecitò che fosse prelevata dai possedimenti del Tempio la somma necessaria per assicurare un’idonea difesa legale agli accusati. Questa richiesta sollevò una serie di discussioni sul numero dei legali che dovevano essere concessi alla difesa. Ma allorché ci si attardava in questo – forse pretestuoso – dibattito, all’improvviso intervenne il concilio ecclesiastico provinciale di Sens, pronunciando la condanna definitiva in base alla ritrattazione, fatta dagli imputati, delle loro precedenti confessioni. A dimostrazione che non vi era la minima volontà di concedere ai Templari la possibilità di difendersi legalmente, la commissione pontificia si guardò bene dall’interporre i propri uffici: l’arcivescovo di Narbona, suo presidente, richiesto di intervenire, «abbandonò la sessione dominicale della commissione “per ascoltare messa”»[20]. Tutto ciò lascia intendere che i promotori di questo processo non potevano non essere consapevoli dell’infondatezza delle accuse; accuse che possiamo quindi giudicare, una volta per tutte, come un pretesto destinato a celare quelle che erano le vere motivazioni. Con questa manovra si spense in Francia ogni ardire: coloro che, riponendo la loro fiducia nella giustizia papale, avevano osato prendere le difese del Tempio o si eclissarono o vennero rinchiusi in prigione, e della maggior parte di essi non si seppe più nulla; i 54 Templari che avevano ritrattato le confessioni loro estorte con la tortura furono condannati al supplizio del fuoco. «Con scandalo di alcuni spettatori, alcuni di essi ebbero l’impudenza di protestare la propria innocenza anche mentre venivano condotti al rogo»[21].
Se in questo modo veniva soffocata sul suolo francese ogni altra reazione dei sostenitori della causa templare, altrove invece la lotta proseguiva senza perdere colpi. A Venezia, dove l’Inquisizione si trovava sottoposta all’arbitrio dello Stato, essi non vennero neppure infastiditi e per un certo periodo mantennero le loro proprietà. Nell’Italia settentrionale, l’arcivescovo di Ravenna, incaricato della commissione di controllo delle inchieste, lasciò che la maggior parte degli imputati non fosse messa agli arresti. I Templari di Piacenza, Bologna e Faenza furono dichiarati innocenti, col grande disappunto degli inquisitori domenicani, che si appellarono a Clemente V. Conseguentemente, riferisce il Demurger, il papa, in una lettera indirizzata all’arcivescovo di Ravenna, «gli rimprovera di non avere fatto ricorso alla tortura e ordina nuovi interrogatori; l’arcivescovo de Concoregio rifiuta, ma i suoi colleghi di Pisa e di Firenze ne approfittano per riaprire il processo contro i templari toscani e questa volta con la tortura»[22]. In Germania vi furono aspri scontri all’interno della stessa gerarchia ecclesiastica; per esempio, quando l’arcivescovo di Magdeburgo – notoriamente ostile al Tempio – fece imprigionare e pretese di giudicare i cavalieri templari, il vescovo di Halberstadt non esitò a esporsi in prima persona per difenderli, scagliando la scomunica nei confronti del suo avversario. In Aragona, i Templari giunsero a opporsi al loro arresto addirittura con le armi. A Cipro, le accuse non trovarono riscontro e fu necessario un intervento del papa perché fosse riaperto il processo. In Inghilterra non si procedette ad applicare la tortura nei confronti dei fratelli del Tempio finché dal continente non furono inviati due esperti inquisitori. Per quel che riguarda il Portogallo e la Castiglia, infine, notiamo che ancora nel 1311 Clemente V si vedeva costretto a insistere presso i suoi sovrani con queste pesanti parole: «Giustizia vuole che, affinché si appuri nel modo più certo e chiaro la verità dei Templari, essi […] siano sottoposti alla tortura. Vescovi e delegati, però, hanno, dimostrando poca sagacia, trascurato questa misura. Esigiamo esplicitamente che venga applicata nei confronti dei Templari ogni sorta di tortura che porti a una rapida e completa rivelazione della verità. I santi canoni esigono che in simili circostanze le persone sulle quali gravano sospetti tanto chiari e inequivocabili siano affidati ai boia del tribunale ecclesiastico»[23] [i corsivi sono nostri].
Questa resistenza nei confronti della volontà pontificia, lungi dal poter essere spiegata in termini di interessi politici o di classe, rivela, a nostro modo di vedere, che la causa templare veniva sostenuta un po’ ovunque in Occidente da personaggi uniti da una vera e propria comunanza di ideali. E per farsi un’idea di quel che dovevano provare costoro di fronte al susseguirsi degli attacchi contro la causa che condividevano, non sarà inutile riportare qui le dichiarazioni rilasciate da Raimondo Sa Guardia, il Templare che in Aragona guidò la resistenza armata: «Non avendo potuto provare nessuno dei crimini che ci vengono imputati, questi individui perversi hanno fatto appello alla violenza e alla tortura, perché è solo con questi sistemi che hanno potuto strappare delle confessioni a qualcuno dei nostri confratelli»[24] [i corsivi sono nostri].
Si arrivò così al XV concilio ecumenico tenutosi a Vienne, in cui doveva essere deliberata la sorte del Tempio. In questa occasione si verificò un estremo tentativo di difesa da parte dei Templari, che P. Lesourd e C. Paillat riferiscono in questi termini: «Non appena aperto il concilio vi si presentarono nove cavalieri del Tempio, i quali dichiararono di agire in rappresentanza di altri millecinquecento o duemila Templari che si erano ritirati sulle alture presso Lione, e chiesero di poter assumere, davanti al concilio, la difesa dell’Ordine. Senza dar loro ascolto, Clemente V li fece imprigionare e, successivamente, sottopose la questione al concilio: bisogna concedere una difesa all’Ordine del Tempio? La maggioranza rispose affermativamente. Contrari si dichiararono soltanto alcuni cardinali e prelati francesi. Clemente V ne rimase molto imbarazzato. All’estero le indagini pontificie si erano sempre dimostrate favorevoli ai Templari. Alla fine, i Templari non furono ammessi a difendersi […]»[25]. Per gettare un po’ di luce su questo episodio alquanto oscuro, riprodurremo un brano, per noi assai significativo, della lettera con cui Clemente V, il giorno 11 novembre 1311, informava Filippo il Bello dell’accaduto: «Benché questi nove templari si fossero presentati volontariamente, noi abbiamo tuttavia deciso di arrestarli, e li facciamo trattenere in prigione. Inoltre, abbiamo creduto di dover impiegare particolari precauzioni per la nostra sicurezza, e annunciamo questi avvenimenti a vostra Grandezza, affinché, prudentemente vigile, essa pensi a ciò che conviene ed è necessario fare per la difesa della nostra persona»[26]. Alla fine, senza tuttavia mai condannare l’Ordine del Tempio come tale, nella primavera del 1312 il papa annunciava la sua decisione di abolirlo, e si cautelava lanciando «la scomunica contro chiunque osasse utilizzare il nome e i segni distintivi del Tempio»[27].
Al fine di mettere in chiaro, una volta per tutte, che nel mirino di questi «individui perversi» non vi era soltanto l’Ordine del Tempio, sarà bene rilevare che in quello stesso anno, sempre dalle solite accuse di eresia, scaturiva un’altra inchiesta, ma questa volta indirizzata contro i Cavalieri teutonici, che condusse, nel 1313, ad aprire dei procedimenti giudiziari nei loro confronti; solo che in Germania la situazione non era certo quella della Francia di Filippo il Bello, e così la manovra tentata, orfana dell’appoggio di oppositori che avessero un peso comparabile a quello del re francese, in questo caso finì con l’arenarsi. È il caso di aggiungere che già Guénon ebbe occasione di sottolineare in L’esoterismo di Dante gli speciali rapporti esistenti fra quest’Ordine e quello dei Templari? Ma c’è un altro fatto ancor più inquietante: nel 1313 si verificò la misteriosa morte di Arrigo VII, eletto Imperatore nel 1308 – lo stesso anno in cui il papa annunciò di voler prendere nelle proprie mani le redini del processo all’Ordine del Tempio –, quasi sicuramente avvelenato nel corso della sua discesa in Italia, peraltro largamente caldeggiata da Dante e dai «Fedeli d’Amore».
E intanto, nel marzo del 1314, a Parigi, si apriva il processo finale contro i massimi dignitari templari, senza che nei lunghi sette anni di carcerazione subiti da Giacomo de Molay, Clemente V avesse osato vederlo o ascoltarlo una sola volta. Andreas Beck riporta due testimonianze della ritrattazione fatta dal Gran Maestro del Tempio nel corso di questo processo, che meritano di essere qui riprodotte: «Guglielmo di Nangis descrive così lo svolgersi dei fatti: “Ma proprio quando i cardinali già credevano d’aver concluso tutta la faccenda, improvvisamente e inaspettatamente due di quelli, cioè il gran maestro e il gran precettore di Normandia, presero la parola contro il cardinale che aveva tenuto il discorso e contro l’arcivescovo di Sens, e si difesero accanitamente, ritrattando sia le loro confessioni che quelle altrui, tralasciando ogni ossequio, tra la meraviglia degli astanti”. Secondo la Usperger Chronik, De Molay avrebbe detto: “Alla soglia della morte, dove anche la minima delle menzogne è fatale, confesso chiamando il cielo e la terra a testimoni, che ho commesso peccato gravissimo a danno mio e dei miei, e che mi sono reso colpevole della terribile morte, perché, per salvarmi la vita e sfuggire ai troppi tormenti, e soprattutto allettato dalle parole lusinghiere del re e del papa, ho testimoniato contro me stesso e contro il mio ordine. Ora invece, sebbene sappia quale destino mi attende, non voglio aggiungere altre menzogne a quelle già dette e, nel dichiarare che l’ordine fu sempre ortodosso e mondo d’ogni macchia, rinunzio di buon grado alla vita”»[28] [i corsivi sono nostri].
Se in questo articolo non ci siamo soffermati più di tanto sui particolari concernenti il ruolo assai negativo giocato dal re di Francia è perché questo punto ci sembra fuori discussione, visto che la sua responsabilità è già stata sottolineata a sufficienza dalla maggior parte degli studiosi. Faremo soltanto notare che, verso il 1304, egli offriva «all’intero Ordine, in quanto corpo, garanzie particolarmente vincolanti della propria protezione»[29]. Eppure, le parole di De Molay, or ora citate, ci portano ad accogliere cautamente una tale affermazione, che a noi appare piuttosto come una manifestazione della doppiezza di Filippo il Bello o, se si vuole, di colui che, dietro le quinte, reggeva le fila di questa tragica vicenda. Con riguardo a ciò, ci limiteremo ad aggiungere solo questa semplice domanda: sarebbe stato possibile portare a compimento un simile colpo di mano, se la sede papale si fosse trovata a Roma invece che ad Avignone? Considerando anche solo quanto abbiamo riferito in precedenza, noi lo riteniamo estremamente improbabile. Però, se le cose stanno veramente così, non è forse più che verosimile che si trattasse allora di un piano architettato già da tempo?
Quanto a Clemente V, cosa pensare della parte da lui sostenuta nella tragedia templare? Ai nostri lettori non sarà sfuggita la doppiezza della promessa fatta ai dignitari del Tempio appena imprigionati; ricorderemo soltanto che quelle «parole lusinghiere» includevano anche un ammonimento «a deporre ogni pensiero di fuga»: in quale altro modo definire il suo posteriore operato se non come un vero e proprio voltafaccia? E per di più premeditato. Spiegare un simile comportamento con le pressioni che egli possa avere subito da parte di Filippo, non basta certo per giustificarlo. Infatti, anche in un tale caso, ap punto per essersi supinamente piegato ai desideri del re, quegli che incarnava la massima autorità «visibile» del mondo occidentale va ritenuto massimamente responsabile delle malefatte ordite da chi gli era gerarchicamente subordinato e che aveva il dovere tassativo di controllare. Che questa sia stata l’identica conclusione a cui arrivarono gli stessi Templari, oggi è possibile affermarlo grazie al R. P.-M. Tonnellier, che scoprì nel castello di Domme una serie di «graffiti» portanti «la data e la firma del Tempio»; infatti, tra le varie raffigurazioni simboliche presenti nelle camere che all’epoca funsero da prigione ai Templari, egli vide spiccare un’iscrizione riprodotta «ossessivamente» in ogni dove: «Destructor Templi Clemens V»[30]. Di fronte a ciò, che secondo noi ha tutta l’apparenza di una condanna affidata dai Templari alla memoria della pietra, è difficile non pensare all’idea di «vendetta templare». Idea di cui peraltro anche Dante si era fatto eco in una strofa della Divina Commedia:

O Signor mio, quando sarò io lieto
A veder la vendetta, che, nascosa,
Fa dolce l’ira tua nel tuo segreto?[31]

Come mette in evidenza R. Guénon, in questa terzina vediamo infatti comparire, citato alla lettera, il Nekam Adonaï dei Kadosch templari: «Vendetta, o Signore»[32].
Sarebbe sbagliato, però, considerare tale «vendetta» come una semplice «sanzione» di tipo morale. Converrà aprire qui una parentesi per far presente che in una visione universale quale era quella del centro iniziatico che secondo noi il Tempio aveva il compito di custodire, anche l’azione svolta da colui, o meglio da coloro che con la calunnia, l’inganno, l’oppressione, la crudeltà e il tormento erano riusciti a radere al suolo ciò che uomini come san Bernardo avevano contribuito a edificare, tale azione – dicevamo – non poteva non concorrere alla realizzazione del piano divino, generando a sua volta una serie di reazioni corrispondenti. Infatti, nella citata terzina Dante dice che tale «vendetta» è nascosa e contenuta nel segreto del Principio. Queste parole, lungi dal costituire un prodotto della fantasia poetica, esprimono nel modo più preciso e sintetico possibile la nozione tradizionale indù dell’apûrva, nota altrove sotto il nome di «azioni e reazioni concordanti». Sebbene il concetto non sia di facile comprensione, un’idea sarà possibile farsela, almeno per quel che riguarda il punto che stiamo toccando, da questa precisazione di R. Guénon: «L’apûrva può, da un canto, aderire all’essere che ha compiuto l’azione, come un elemento ormai costitutivo della sua individualità considerata nella sua parte incorporea, nella quale risiederà finché essa durerà, e, dall’altro canto, uscire dai confini di questa individualità per entrare nella sfera delle energie potenziali dell’ordine cosmico; in questa seconda parte, se ce lo rappresentiamo, ricorrendo a un’immagine senza dubbio imperfetta, come una vibrazione emessa in un certo punto, tale vibrazione, dopo essersi propagata fino ai confini della sfera a essa accessibile, ritornerà in senso contrario al suo punto di partenza, e, tutto questo, come esige la causalità, sotto forma di una reazione che ha la stessa natura dell’azione iniziale»[33].
Augurandoci di essere riusciti a chiarire così questo punto, possiamo ora continuare la nostra esposizione rilevando che fu soprattutto in Italia – secondo il Barber – che iniziarono a circolare cronache sulla fine del Tempio in cui si faceva riferimento a una «vendetta templare». Il fatto che a pochi mesi di distanza dal rogo dei dignitari templari morirono a loro volta anche Clemente V e Filippo il Bello, certamente deve aver contribuito, come sostiene l’autore, a determinare «la nascita di leggende»[34]. Già, ma invece di liquidare così la questione non sarebbe stato meglio chiedersi chi poteva esserci dietro la diffusione di queste leggende e quale scopo perseguiva? Eppure, dalle notizie riportate dagli storici emerge che di questa «vendetta» – che non poteva essere di tipo magico come temeva il papa[35] – nella Santa Sede si nutriva una gran paura. In effetti, secondo il Partner, «Papa Giovanni XXII (1316-34), non si fidava di nessuno nel suo terrore di complotti e di diabolici disegni dei maghi […]. Si dice che, nei primi tempi del pontificato di Giovanni, fosse stata sventata una congiura da parte di Ugo Geraud vescovo di Cahors, la stessa regione da cui proveniva anche il papa […]. Nel 1320 nuove accuse di magia vennero mosse contro i nemici politici del papa in Italia. Il grande tiranno di Milano, Matteo Visconti, fu accusato di aver ordinato un’immagine d’argento raffigurante papa Giovanni XXII e recante il segno zodiacale di Saturno, segno di melanconia e disordine, insieme al nome di Amaymon, il “demone d’Occidente” […]. Ulteriori testimonianze dettero luogo ad analoghe accuse di magia, che in un caso tra i sospettati citarono anche il nome del poeta Dante Alighieri»[36]. Che nella lista dei sospettati ci fosse anche il nome di Dante è qualcosa che, in realtà, non ci sorprende più di tanto. Infatti, da una testimonianza riportata da Luigi Valli sappiamo che a quei tempi «tutti i poeti avevano fama di magi, incantatori o eretici» e che lo stesso Petrarca fu imputato in «un processo impostato contro “nonnullas” di questi poeti», nel quale «si purgò, “non sine labore”, dall’accusa di eresia»[37]. Il Boccaccio, poi, che dopo la distruzione dei Templari aveva osato tessere le loro lodi[38], essere stati tanto costanti e stabili che non per forza di tormenti né per terrore dell’imminente morte mai l’uno dall’altro fu differente; ha dato tanta meraviglia ed è stata così mostruosa cosa, che difficilmente si può credere alle parole. Ma non è dubbio che la verità sola non facesse quelli d’un istesso animo. O inclita virtù, di tutte l’altre fermo capo! Tu con la stabile fermezza calchi le ruine dei reami. Con la sacra fermezza cacci i dannosi empiti degli sdegni (…). Imparate coi suoi ricordi a farvi forti e costanti e sdegnosi della femminil leggerezza, affinché se s’avvenisse mai l’occasione, non siate differenti dalla fortissima schiera dei Templari» (citato in L. Valli, Il linguaggio segreto, cit., pp. 514-15). ] , ricevette la visita di «un tale a nome di un certo Pietro nativo di Siena, religioso di gran nome e famoso ancora per miracoli operati. Questo Pietro […] aveva incaricato il visitatore di andare prima di tutto dal Boccaccio e poi da altra gente in Gallia e in Bretagna e per ultimo dal Petrarca, e al Boccaccio doveva dire due cose: 1. Che a lui già sovrastava la morte; 2. Ch’egli dovesse rinunziare allo studio della poesia (!)»[39]. Ma ciò che forse può aiutare a rendere meglio l’idea di quel che stava accadendo, del clima di cupa oppressione che allora regnava e avrebbe regnato ancora per secoli nel mondo cristiano, è il caso di un’organizzazione a cui si attribuì il nome di «Fratelli del Libero Spirito», la quale fu oggetto di un’accanita persecuzione per buona parte del Trecento, a dispetto dei ripetutamente deludenti risultati ottenuti. Cosa si nascondesse dietro questa misteriosa organizzazione è difficile dirlo, ma ci pare piuttosto significativo che essa venisse accusata di diffondere «ideali anarchici perniciosi a tal punto che la loro accettazione avrebbe provocato il totale abbattimento della società»[40]. Dopo quanto abbiamo detto qui, è quasi superfluo osservare che il genere di società a cui in questo caso si fa riferimento non poteva certamente coincidere con il disegno che da parte sua cercava di promuovere l’«élite intellettuale»[41]. Tutto ciò, a nostro modo di vedere, sta a dimostrare quale peso dovevano avere ormai raggiunto nella corte papale gli oppositori, cioè quegli orbi – che a questo punto potremmo qualificare come veri «parassiti dello spirito» – di cui parlavamo in precedenza, i quali nella faccenda del Tempio non potevano non avere la «coda di paglia»…
Ma è ora di tornare ai nostri Templari: al di là di quelli che impazzirono o scelsero il suicidio in seguito alle torture subite, al di là di quegli sventurati che rimasero più o meno a lungo incarcerati, al di là infine di quelli che furono giustiziati, vi sono fondati motivi per ritenere che, soprattutto fuori dai confini della Francia e della Chiesa, un numero non indifferente di fratelli sia riuscito a evitare le peggiori conseguenze della persecuzione. Il caso più eclatante è senz’altro quello del Portogallo, il cui re, Dionigi, li accolse con tutte le loro proprietà in un nuovo ordine: i Cavalieri di Cristo; A. Beck afferma che con il loro denaro «[…] vennero finanziate le scoperte del nuovo mondo. Anche Enrico il Conquistatore fu tra i membri del nuovo ordine. La croce dei Templari […] sventolò come stendardo dei Cavalieri di Cristo su tutti i mari del mondo»[42]. Altrove, li vediamo trovare rifugio fra i Cavalieri teutonici in Germania, e in Spagna presso quegli ordini di Calatrava, di Alcántara o di Santiago che essi stessi avevano contribuito a fondare verso la seconda metà del secolo XII. Tutto questo, però, non vuol dire che si possa parlare di una sopravvivenza dell’Ordine del Tempio, il quale, anzi, come tale, non aveva più ragione di esistere. Ciò che, invece, non poteva venire meno era quello «spirito iniziatico» che, come abbiamo cercato di far vedere nel nostro precedente articolo, animava non solo i Templari ma tutto un esteso movimento che in quei secoli si sforzava di diffondere la luce nel mondo cristiano. Eppure, per noi non c’è dubbio che era proprio un tale spirito a essere nel mirino di coloro che, mossi da un odio cieco verso ciò che superava ogni loro possibilità di comprensione, si scagliavano contro qualunque manifestazione di tale spirito che venisse a cadere sotto i loro sensi, illudendosi così di riuscire a soffocarlo. È ovvio che, in simili circostanze, per non seguitare a esporsi ai colpi di tali avversari, ciò che bisognava fare era riorganizzarsi «in una maniera più nascosta, in qualche modo invisibile, e senza assumere appoggio in un’istituzione conosciuta esteriormente, la quale, in quanto tale, avrebbe potuto essere un’altra volta distrutta»[43]. Abbiamo già prodotto, sul finire del nostro precedente articolo, una testimonianza dei «Fedeli d’Amore» che sembra indicare precisamente questa volontà di ritrarsi nell’invisibilità[44]; e non è per niente inverosimile – aggiungiamo – pensare che questa iniziativa abbia potuto coinvolgere anche una parte dei Templari scampati alla persecuzione. Del resto, faremo notare che già nella Divina Commedia Dante alludeva, sia pure velatamente, a una tale trasformazione:

In forma dunque di candida rosa
Mi si mostrava la milizia santa
Che nel suo sangue Cristo fece sposa.[45]

Bisogna quindi ritenere che a risorgere dalle ceneri del rogo dei Templari sia stata un’organizzazione che si identificava nel simbolo della «candida rosa»? Al di là del fatto che, come abbiamo avuto modo di far notare nel nostro precedente articolo, era da secoli ormai che la «rosa» veniva cantata dagli iniziati sia orientali sia occidentali quale simbolica mèta da raggiungere, nel caso qui considerato appare abbastanza evidente che il riferimento riguarda in particolare quelli che furono noti principalmente sotto il nome di «Fratelli della Rosa-Croce». Ma un nome essenzialmente simbolico come questo sembrerebbe più adatto a designare un grado spirituale che una vera e propria organizzazione: infatti, la rosa sbocciante al centro della croce rappresenta ciò che si può chiamare la perfezione dello stato umano. Questo ci porta a pensare che in realtà i Rosa-Croce costituissero una sorta di gerarchia invisibile capace di ispirare le varie organizzazioni iniziatiche occidentali. D’altra parte, per continuare a mantenere delle relazioni con le organizzazioni iniziatiche orientali, sia pure in modo più nascosto di quel che in precedenza aveva fatto la «milizia santa», ci volevano degli esseri che avessero raggiunto la coscienza effettiva dell’unità trascendente delle varie forme tradizionali. E, a giudicare da quanto si dice dei Rosa-Croce, era proprio così che stavano le cose: non dovevano essi, ogni volta che si trasferivano in un altro paese, cambiare nome e adottare pure la tradizione ivi praticata? Ma vediamo ora cosa ne dice R. Guénon: «Quelli che a partire dal secolo XIV sono stati in Occidente chiamati i Rosa-Croce, e che hanno ricevuto altre denominazioni in altri tempi e in altri luoghi, giacché il nome ha qui un valore puramente simbolico e deve esso stesso adattarsi alle circostanze, non sono una qualsiasi organizzazione; essi sono la collettività degli esseri che sono pervenuti a uno stesso grado superiore a quello dell’umanità ordinaria, a uno stesso grado di iniziazione effettiva, […]; e i quali possiedono inoltre gli stessi caratteri interiori, ciò che per essi basta per riconoscersi tra di loro senza aver bisogno di nessun segno esteriore. Per questo non hanno altro luogo di riunione se non “il Tempio dello Spirito Santo, che è dappertutto”, per cui le descrizioni che talvolta ne sono state fatte possono essere intese soltanto simbolicamente; ed è anche questa la ragione per cui essi rimangono necessariamente sconosciuti ai profani in mezzo ai quali vivono, a loro esteriormente simili anche se completamente diversi, perché i loro soli segni distintivi sono puramente interiori e possono essere percepiti soltanto da coloro che hanno raggiunto lo stesso sviluppo spirituale, di modo che il loro influsso, che è collegato più a un’“azione di presenza” che non a una qualsiasi attività esteriore, si esercita per vie che sono totalmente incomprensibili agli uomini comuni»[46].
Parole che ci permettono di capire come mai coloro che costituivano il «Collegio degli Invisibili» – altro nome con cui talvolta erano chiamati i Rosa-Croce – non furono mai individuati dall’Inquisizione, malgrado essa debba pure averne avuto qualche sentore; e questo ci fa tornare in mente il caso di quei «Fratelli del Libero Spirito» di cui parlavamo poco fa: la loro «invisibilità» fu tale da portare il Barber a concludere che essi non esistettero nemmeno. Da parte nostra nutriamo una migliore opinione per quel che si riferisce alle facoltà mentali di coloro che, per così lungo tempo, condussero una tenace quanto vana persecuzione nei confronti di questa inafferrabile organizzazione; anzi, è proprio questa sua «invisibilità» a renderci più cauti, e, senza escludere altre possibilità, ci chiediamo se ciò che veniva perseguitato sotto tale nome non fosse in definitiva quel la stessa collettività che tra le altre denominazioni ricevette anche quella di Rosa-Croce. Sia quel che si vuole di quest’ultimo punto, che in questa sede non possiamo pensare di approfondire, ciò che soprattutto ci preme rilevare qui è che con ogni probabilità furono esseri come questi a portare avanti nel mondo cristiano la riorganizzazione di cui abbiamo detto pocanzi. Si confronti, a questo proposito, il seguente brano di Guénon, il quale, nonostante la sua lunghezza, merita di essere riproposto per intero all’attenzione dei nostri lettori: «Le considerazioni da noi esposte fanno altresì capire come, in seno a una stessa organizzazione, possa esistere in qualche modo una doppia gerarchia, e ciò più in particolare nel caso in cui i capi apparenti non siano coscienti del ricollegamento a un centro spirituale; ci potrà così essere, al di fuori della gerarchia visibile che essi costituiscono, un’altra gerarchia invisibile, i cui membri, senza ricoprire nessuna funzione “ufficiale”, saranno tuttavia quelli che assicureranno realmente, con la loro sola presenza, il legame effettivo con tale centro. Questi rappresentanti dei centri spirituali, nelle organizzazioni relativamente esteriori, non hanno evidentemente da farsi riconoscere come tali, e possono assumere l’apparenza che meglio si addice all’azione “di presenza” che tocca loro esercitare, sia essa quella di semplici membri dell’organizzazione se devono ricoprire in quest’ultima un ruolo fisso e permanente, oppure, se si tratta di un’influenza momentanea o che debba trasferirsi in punti diversi, quella di quei misteriosi “viaggiatori” di cui la storia ha riservato più di un esempio, e il cui atteggiamento esteriore è spesso scelto nel modo più adatto per sviare i ricercatori, sia che si tratti di colpire l’attenzione per ragioni particolari, sia, al contrario, di passare completamente inosservati. Si può dedurre da ciò anche cosa fossero veramente coloro che, senza che appartenessero essi stessi a nessuna organizzazione conosciuta (intendiamo dire a un’organizzazione rivestita di forme esteriormente identificabili), presiedettero in certi casi alla formazione di organizzazioni di quest’ultimo tipo, o, in seguito, le ispirarono e le diressero invisibilmente; fu questo in particolare, per un certo periodo [che va dal secolo XIV al secolo XVII], il ruolo dei Rosa-Croce nel mondo occidentale, ed è questo il vero significato di quel che la Massoneria del secolo XVIII denominò con la dizione di “Superiori Incogniti”»[47].
Quest’ultima osservazione, che a qualche lettore disattento dell’opera di R. Guénon forse potrà giungere nuova, ci restituisce bruscamente al tempo presente. In effetti, nonostante il passo citato si mantenga sulle generali, leggendo tra le righe è possibile scorgere un’allusione neanche troppo velata a quel lungo processo di adattamento, innestato sulle corporazioni di costruttori, che finì per dare vita alla Massoneria così come oggi la conosciamo. E, aggiungiamo, un tale accostamento con i Rosa-Croce, sia pure indirettamente, non è affatto privo di connessioni con l’argomento principale di questo studio, come converranno coloro che abbiano seguito con un po’ di attenzione la nostra esposizione. Tuttavia, tenuto conto del considerevole lasso di tempo trascorso dalla fine dei Templari, è più che comprensibile che ci si chieda di quale natura siano i legami che possono ricollegare questi ultimi agli attuali Massoni; e, visto che la maggior parte degli storici tende a qualificarli come «ideali», sarà bene segnalare qui che su questo punto Guénon assume una posizione nettamente contrastante: infatti, egli non esita ad affermare, in una recensione, che tali legami sono «certamente più che “ideali”»[48]. Naturalmente, si tratta di un’affermazione che non può trovare riscontro in alcun documento, ma, l’abbiamo già detto, in questo genere di cose non è previsto che si conceda spazio alla curiosità dei profani; del resto, non è forse vero che, in un clima di «caccia alle streghe» come quello di cui abbiamo tentato di offrire qui un’idea, pensare di produrre un qualsiasi incartamento sarebbe equivalso a un vero e proprio suicidio? Comunque sia, il fatto certo è che con il prorompere dell’odierna Massoneria constatiamo che la questione dei Templari, per la verità mai scomparsa del tutto nei secoli precedenti dai dibattiti politici e dalle disamine storiche, finì per salire decisamente alla ribalta[49].
Se ci attenessimo ai commenti degli storici non ci soffermeremmo neanche a considerare la cosa, ma, contrariamente a essi, noi pensiamo che vi siano delle ragioni molto serie che la giustificano. Innanzitutto, vorremo far rilevare che, dopo ben quattro secoli di relativa «invisibilità», era la prima volta che una forma iniziatica tornava ad apparire così visibilmente all’esterno. Ciò vuol dire che coloro che presiedevano invisibilmente alla formazione di questa organizzazione giudicavano ormai maturi i tempi perché fosse possibile appoggiarsi di nuovo a un’istituzione conosciuta esteriormente, senza incorrere nel pericolo che potesse ripetersi la storia dell’Ordine del Tempio. Fu nella fase di sviluppo di questa istituzione che si videro comparire svariate «leggende» in cui i Templari venivano collegati con la Scozia e con la Libera Muratoria. Senza pensare di poter entrare qui nei dettagli, faremo ancora notare che tali racconti simbolici veicolano, al di là dei particolari legati alla «lettera», uno stesso messaggio di fondo, una specie di «chiave» che, soprattutto a quei tempi, dovevano essere in grado di recepire abbastanza agevolmente tutti coloro che avevano «occhi per vedere e orecchie per intendere». Possiamo aggiungere che questo genere di «ricordi» fu affidato alla custodia dei vari sistemi di Alti Gradi. Ma chi c’era dietro? A questo riguardo sarà opportuno rilevare che tali sistemi, come spiega sempre R. Guénon, costituiscono sì «un’organizzazione interna in rapporto a quella della Massoneria simbolica, ma ancora esterna con riferimento ad altre»[50]. Questo invito a considerare la gerarchia iniziatica alla stregua di «scatole cinesi» ci riconduce ai «Superiori Incogniti»: «È soltanto dietro i diversi sistemi – precisa infatti l’autore – e null’affatto all’interno di questo o di quello di essi che è possibile scoprire i Superiori Incogniti veri e propri; sennonché, per quanto riguarda le prove della loro esistenza e della loro azione più o meno immediata, esse sono difficili da trovare solo per coloro che non vogliono vederle»[51]. Se poi qualcuno dovesse ancora chiedersi cosa servisse a designare questo nome, ecco un altro brano di Guénon che rimuove ogni dubbio: «Il fatto è che i “veri iniziati” sono ancora più rari di quanto si pensi, ma ciò non vuol dire che non ne esistano del tutto […]; e perché, pur vivendo sulla terra, questi “adepti” nel senso vero e completo della parola, non potrebbero essere i veri Superiori Incogniti?»[52]. A ben vedere, però, sarebbe bastato richiamarsi a quanto è già stato riferito qui trattando della questione dei Rosa-Croce per capirlo chiaramente.
A proposito dei Rosa-Croce, si dice che essi si ritirarono in Oriente[53] verso la metà del secolo XVII, con il che ebbe inizio la fase più oscura dell’«età oscura». Tuttavia, secondo quanto osserva Guénon, «non bisogna dimenticare che la fine di un ciclo coincide con l’inizio di un altro ciclo; ci si ricordi dell’Apocalisse e si vedrà che all’estremo limite del disordine, compreso l’apparente annientamento del “mondo esteriore”, si produrrà l’avvento della “Gerusalemme celeste”, la quale sarà, nei confronti di un nuovo periodo della storia dell’umanità, l’analogo del “Paradiso terrestre” nei confronti del periodo che troverà il suo termine nello stesso istante. L’identità dei caratteri dell’epoca moderna con quelli che le dottrine tradizionali attribuiscono alla fase finale del Kali-Yuga fa pensare, senza troppa inverosimiglianza, che una tale eventualità potrebbe anche non essere molto lontana, e si può aggiungere che si tratterebbe in tal caso, dopo l’oscuramento presente, del trionfo completo dello spirituale»[54].
Ora, quando si considera che il passaggio da un ciclo all’altro comporta un raddrizzamento che «dovrà però essere preparato – anche visibilmente – prima della fine del ciclo attuale»[55], e quando si considera che la «Gerusalemme celeste» è descritta come una città, non si affaccia immediatamente alla mente l’idea che al fine di riuscire a realizzare questo scopo ci voleva proprio l’intervento di un’organizzazione specialmente qualificata per una tale «opera di costruzione»?

Tratto da: «La Lettera G» N° 5 – 2006 - http://www.laletterag.it




[1] «Nuovi cenni sui Templari», in «La Lettera G», n. 4, pp. 5-21.

[2] P. Partner, I Templari, Einaudi, 1991, p. 40.

[3] F. Bramato, Storia dell’Ordine dei Templari in Italia, Atanòr, 1993, p. 160.

[4] bid., pp. 66-67. – Del resto, gli interventi a sostegno dei Templari si moltiplicheranno ancora a lungo, a riprova della foga con cui operava il «partito dell’opposizione», e giungeranno a imporre persino la scomunica verso chiunque avesse osato fare uso di violenza nei confronti di qualche fratello o si fosse anche impossessato di un cavallo o altro bene di proprietà dell’Ordine. A questo proposito, possiamo citare un episodio accaduto nel 1285 nella commenda di Chieri, in Italia: distrutta la casa templare da un incendio appiccato da ignoti, il Comune fu costretto a ricostruirla a proprie spese (cfr. B. Capone, L. Imperio e E. Valentini, Guida all’Italia dei Templari, Edizioni Mediterranee, 1989, p. 47). Cosa pensare del movente che può avere spinto questi «ignoti» ad affrontare un’azione così rischiosa?

[5] R. Guénon, San Bernardo, Luni Editrice, 1999, pp. 37-39.

[6] Cfr. P. Girard-Augry, Aux origines de l’Ordre du Temple, Ed. Opera, 1995, p. 57.

[7] Cfr. P. Partner, I Templari, cit., p. 183.

[8] M. Barber, La storia dei Templari, Piemme, 1997, p. 343.

[9] Cfr. P. Partner, I Templari, cit., p. 62.

[10] G. Bordonove, Il rogo dei Templari, Longanesi & C., 1973, p. 194.

[11] Ibid., p. 195.

[12] Cfr. L. Imperio, Sigilli Templari, Ed. Penne & Papiri, 1994, p. 43.

[13] Cfr. P. Partner, I Templari, cit., p. 69.

[14] D. Roman, René Guénon et les destins de la Franc-Maçonnerie, Éditions Traditionnelles, 1995, p. 53.

[15] P. Partner, I Templari, cit., p. 71.

[16] Cfr. G. Bordonove, Il rogo dei Templari, cit., p. 197.

[17] A. Demurger, Vita e morte dell’Ordine dei Templari, Garzanti, 1992, p. 266.

[18] P. Partner, I Templari, cit., p. 85.

[19] P. Partner, I Templari, cit., p. 86.

[20] Ibid., pp. 88-89.

[21] Ibid., p. 89.

[22] A. Demurger, Vita e morte dell’Ordine, cit., p. 255.

[23] A. Beck, La fine dei Templari, Piemme, 2004, p. 140.

[24] Cfr. A. Demurger, Vita e morte dell’Ordine, cit., p. 282.

[25] Citato in D. Roman, René Guénon et les destins, cit., p. 41.

[26] Cfr. G. Bordonove, Il rogo dei Templari, cit., pp. 225-26.

[27] B. Frale, I Templari, Il Mulino, 2004, p. 170.

[28] A. Beck, La fine dei Templari, cit., pp. 160-61.

[29] P. Partner, I Templari, cit., p. 73.

[30] Cfr. D. Roman, René Guénon et les destins, cit., p. 53.

[31] Purgatorio, XX, 94-96.

[32] R. Guénon, L’esoterismo di Dante, Adelphi, 2001, p. 78, nota 2.

[33] R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi, 1989, p. 196.

[34] Cfr. M. Barber, La storia dei Templari, cit., pp. 359-60.

[35] Al fine di prevenire possibili obiezioni, dato che il Partner parla di magia nera o stregoneria come di un caso a parte, faremo notare che nel 1277 un’opera dai contenuti certamente iniziatici come il Liber de arte amandi et de reprobatione amoris, fu colpita da una solenne condanna al pari dei libri di negromanzia e sortilegi (cfr. A. Ricolfi, Studi sui «Fedeli d’Amore», p. 54).

[36] P. Partner, I Templari, cit., pp. 64-65.

[37] L. Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore», Luni Editrice, 1994, p. 507.

[38] Sarà bene riprodurre qui almeno il brano conclusivo dello scritto di Boccaccio: «Vedere sessantasei uomini non tutti d’un paese, non di costumi conformi, non dotti e ammaestrati, non accordati insieme, non avvisati, non posti in una stessa prigione […]

[39] L. Valli, Il linguaggio segreto, cit., p. 528.

[40] M. Barber, La storia dei Templari, cit., p. 369.

[41] Per spiegarci meglio, forse potrà essere d’aiuto riproporre qui un caso che illustra quale fosse, per esempio, la politica praticata dai Templari nella penisola iberica. A. Demurger (Vita e morte dell’Ordine, cit., p. 148) riporta che «nel 1234, Chivert si arrese ai templari, e questi promisero ai musulmani, se fossero ritornati entro un anno e un giorno, di reintegrarli nelle loro terre e nelle loro case. E ciò avvenne veramente, dato che fu stipulato con loro un accordo per precisare le condizioni della loro permanenza: libertà di culto, completa esenzione del servizio militare, da imposte e da censi per due anni. Nel 1243 i templari fecero costruire un muro per proteggere il quartiere dei mori. In quest’occasione i musulmani giurarono al loro signore, il Tempio, di rispettare la carta “come fedeli e leali sudditi devono fare”». A noi sembra che ciò basti per afferrare le profonde differenze che separano questo disegno da quello che gli oppositori riuscirono a mettere in pratica nelle stesse terre verso la fine del secolo XV.

[42] A. Beck, La fine dei Templari, cit., p. 76.

[43] R. Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, Luni Editrice, 1996, p. 291.

[44] «Nuovi cenni sui Templari», cit., p. 20.

[45] Paradiso, XXXI, 1-3.

[46] R. Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cit., pp. 287-88.

[47] R. Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cit., pp. 80-81.

[48] R. Guénon, Études sur la Franc-Maçonnerie et le Compagnonnage, Éditions Traditionnelles, tomo I, p. 108.

[49] Cfr. M. Barber, La storia dei Templari, cit., pp. 362-63. – Il perché di un simile riproporsi della questione lo si potrà indovinare abbastanza facilmente con il solo riflettere un po’ su quanto è stato detto finora.

[50] «La “Stricte Observance” e i “Superiori Incogniti”», in «Rivista di Studi Tradizionali», n. 93, p. 254. – Questo scritto, risalente a Guénon, fu pubblicato in origine, senza firma, nella rivista «La France Antimaçonnique».

[51] Ibid., pp. 264-65.

[52] Le Sphinx, «Sui “Superiori Incogniti” e l’“astrale”», in «Rivista di Studi Tradizionali», n. 94, p. 14.

[53] Come si debba intendere quest’affermazione lo si può dedurre dalla seguente precisazione di R. Guénon: «Sarebbe del tutto inutile cercare di determinare “geograficamente” il luogo di ritiro dei Rosa-Croce» (Considerazioni sull’iniziazione, cit., p. 292, nota 2). A buon intenditor poche parole…

[54] R. Guénon, Autorità spirituale e potere temporale, Luni Editrice, 1995, pp. 99-100.


[55] R. Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cit., p. 308.

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