"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 23 settembre 2017

Satcidānandendra Sarasvatī, Commento a Le Cinque Gemme dell’Advaita di Śrī Śaṃkarācārya - 5/7

Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja
Commento a «Le Cinque Gemme dell’Advaita»
di Śrī Śaṃkarācārya - 5/7
(Advaita Pañcaratnam)

3- Dissoluzione dell’illusione del mondo
L’ostacolo sulla via dell’Intuizione ossia della conoscenza della realtà di essere veramente della natura essenziale non duale (advitīya) di Śiva, non è solo il nostro jīvātva

Anche il mondo che noi tutti percepiamo è un ostacolo al raggiungimento di quell’Intuizione. Se noi tutti siamo la vera essenza di advitīya ossia il non duale caitanya svarūpa, allora come mai può esistere questo mondo di dualità, pieno di cose grossolane e insenzienti? Questo dubbio minaccia il nostro Śiva bhāvana ossia la nostra certezza di essere essenzialmente della natura della realtà non duale. Ci rode il dubbio che qui esistano molti jīva come noi; tutti viviamo in questo mondo e proviamo sukha e duḥkha. Come può esserci questa molteplicità di jīvātva? In qualche modo accettiamo che jīva è caitanyarūpa. Ma come possiamo spiegarci che siano dell’essenza di caitanya e che esistano dipendenti (paratantra) da un’altra entità esterna anche le cose grossolane, inanimate, insenzienti del mondo esterno, che sono percepite dai jīva come attraenti o reppellenti, utili o nocive?[1] Perciò, a soluzione di questo dubbio citiamo il prossimo verso che offre un altro esempio:
3. Proprio come il sogno avviene grazie all’assopimento (nidrā)[2], tutto questo mondo irreale di dualità appare a causa dell’errore e dell’illusione. Per questa ragione esso non è reale. Io sono Śiva che è puro, totale, eterno, uno senza secondo.
J) Dubbi sull’esempio del serpente e della corda
Se si considera l’esempio della corda e del serpente menzionato nel verso precedente, possono sorgere alcuni dubbi. Se nell’esempio si sostiene che questo jīvātva è confuso con Īśvara, allora sorgono le seguenti obiezioni:
1- Sia la corda sia il serpente sono oggetti che abbiamo già visto. Quindi, quando vediamo nella penombra una corda e non la riconosciamo, possiamo pensare ingannevolmente che si tratti d’un serpente perché conserviamo nella memoria il ricordo latente (saṃskāra) di aver già visto un serpente. Ma se siamo veramente della natura di Śiva, allora com’è possibile che tale errore possa prodursi come risultato di quel saṃskāra sorto dall’illusione del saṃsāra?
2- Nell’esempio, dapprima ci deve essere stata l’esperienza d’un serpente reale affinché l’illusione (bhrānti) del serpente si sovrapponga sulla corda come risultato dei saṃskāra mnemonici. Il fenomeno di bhrānti avviene solo se c’è una precedente esperienza reale conservata nella memoria. Se la condizione di chi trasmigra (saṃsāritva) è illusoria, dovremmo necessariamente averla nella memoria per avere già visto in precedenza un saṃsāritva reale. Nell’insegnamento spirituale advaita sulla coscienza (advitīya caitanyavāda), come si pone questo saṃsāritva? Altrimenti come possiamo credere che saṃsāritva è bhrānti?
3- La corda e il serpente dell’esempio sono entrambe cose separate dal vedente; per lui esse sono oggetti. Nessun essere umano considera se stesso un serpente [poiché ha coscienza d’essere l’“Io”]. Ma nell’esempio è sottinteso che chi è vittima dell’illusione è un saṃsāri: e da ciò si trae che consideriamo saṃsāri colui che vede, cioè lo stesso soggetto. Quindi anche questo aspetto non si accorda con l’esempio.
4- Nessuno, neanche per errore, crede che una corda abbia una duplice esistenza; e nessuno ha l’illusione che una corda, che giace in un dato luogo, esista anche in un altro posto. Nessuno erroneamente sovrappone a una corda un piatto di metallo o altre cose che non hanno alcuna somiglianza con la forma della corda. Ma i vedāntin affermano con quell’esempio che: a) sull’unico Śiva si è sovrapposta l’illusione della molteplicità dei jīva. b) Il mondo, che per Ātman è un oggetto e che è esterno a esso, è confuso con esso. c) Per ultimo, il mondo, pieno di cose grossolane per nulla simili alla natura del puro Ātman (śuddhātma svarūpa), viene confuso con Lui. Questa affermazione non si accorda con l’esempio della corda e del serpente.
Stando così le cose, come possiamo credere d’essere dell’essenza di Śiva? E come possiamo credere che noi abbiamo confuso con quella natura essenziale di pura coscienza la condizione individuale (jīvātva) e la nostra insensatezza (jaḍatva) che in Lui non esistono mai?
K) Questo mondo di dualità appare in Ātman a causa dell’errore
Risponderemo punto per punto alle obiezioni precedenti.
1- La prima obiezione recita; «Come potrebbero sorgere le impressioni mentali (saṃskāra) del ricordo di saṃsāritva, ossia i risultati dell’illusione (bhrama), se non li abbiamo mai sperimentati in precedenza?» Ma non esiste alcuna necessità per cui l’esperienza illusoria debba essere avvenuta precedentemente. Nell’esempio della corda e del serpente nessuno ha mai fatto esperienza che quello fosse un serpente. È stata solo un’illusione (bhrānti) che ha fatto sì che si credesse che: «Questo è un serpente». Così, nell’esempio possiamo credere plausibile che saṃsāritva abbia causato l’errore (bhrānti).
2- La seconda obiezione è la seguente: «Solamente dopo aver realmente visto un serpente, può avvenire la proiezione sulla corda della forma illusoria (bhrama) tratta dalla memoria; perciò solo dopo aver visto un vero saṃsāri dovrebbe avvenire il saṃsāritva bhrama.» Ma non esiste alcuna regola per cui solo dopo aver visto veramente un serpente reale la sua illusione dovrebbe farsi vedere. Prendiamo per esempio due persone di cui una non ha mai visto un serpente e un’altra che, invece, l’ha visto. Avendo visto una corda da una certa distanza, per la luce fievole, non l’hanno riconosciuta come corda. In questa circostanza, se quello che aveva già visto un serpente dichiarasse: «Guarda, c’è un serpente», allora l’altro, che non ha mai visto prima un serpente, sarà informato che quell’oggetto è un serpente. Sebbene quest’ultimo l’abbia appreso solamente quando l’altro ha pronunciato la parola “serpente”, in ogni caso tutti e due hanno preso la corda per qualcosa di diverso. Dopo questo fatto la persona che non aveva mai visto un serpente in vita sua, a causa di questo saṃskāra di un serpente, non è forse vero che potrà confondere un’altra corda con un serpente? In questo secondo caso si dimostra che la causa dell’errore non potrà affatto essere attribuito all’esperienza d’un serpente reale conservato nella sua memoria.
Obiezione: Questo non è esatto perché nell’esempio delle due persone, il primo aveva la cognizione di un serpente vero. Ma nel saṃsāra nessuno ha la cognizione della realtà del saṃsāra. Nel caso in cui qualcuno avesse la cognizione della realtà del saṃsāra, allora questo esempio sarebbe accettabile per affermare che gli altri lo prendono per reale a causa dell’illusione. Ma non è così. Oltre a ciò, quando si raggiunge la corretta cognizione della corda, si dice: «Questa è solo una corda. Senza ragione sono stato illuso a credere che fosse un serpente.» Ma nell’esempio non c’è alcuna ragione perché avvenga una tale esperienza. Perché, come nell’esempio, mentre la corda è stata vista prima, nessuno ha visto prima l’Ātman; se qualcuno lo avesse visto, allora non ci sarebbe motivo d’illusione. O, in alternativa, se c’è una causa per un tale avvenimento, anche se conosciamo l’Ātman con i mezzi della conoscenza vedāntica, nuovamente può ripresentarsi questa illusione. Così, per affermare che il saṃsāra è un’illusione, l’esempio della corda-serpente non è adeguato.
Risposta: Non c’è alcun bisogno che l’esempio sia identico a ciò che vuole illustrare. Se entrambi, l’esempio e ciò che è esemplificato, fossero identici sotto tutti gli aspetti, allora non potremmo distinguere chiaramente fra i due: «Questo è l’esempio, questo è l’esemplificato.» Nel caso presente, con l’esempio della corda e del serpente, quello che dobbiamo discernere è che: «Come confondiamo una corda con un serpente, invero confondiamo l’Ātman con l’anātman.» Perciò l’esempio usato dimostra perfettamente che non c’è affatto una regola per cui l’illusione del saṃsāritva dovrebbe invariabilmente apparire soltanto a una persona che abbia precedentemente visto saṃsāritva.
L) Ātman è saccidānanda svarūpa
Obiezione: Diciamolo pure. Si deve avere preliminarmente la conoscenza dell’Ātman, o no? Chi non abbia già conosciuto la natura della corda stessa, non può affermare d’aver preso la corda per un serpente, vero? Se è vero, allora noi, che non abbiamo già conosciuto l’Ātman, possiamo porci ragionevolmente la domanda: «Come avviene questo anātman bhrama o illusione del non-Sé?»
Risposta: Non c’è nessuno che non abbia conosciuto Ātman. Tutti hanno conosciuto il loro Ātman come “Io”.
Obiezione: Cioè vuoi che questo stesso “Io” è conosciuto a tutti come Ātman? Allora, qual è la necessità del Vedānta śāstra per aiutarci a conoscere l’Ātman? Se anche quelli che hanno conosciuto l’Ātman sono illusi, allora quale utilità o beneficio ci viene dall’Ātmajñāna?
Risposta: Tutti noi conosciamo l’Ātman nella comune forma dell’“Io”; ma non l’abbiamo conosciuto come Realtà assoluta che è della natura di Verità, Coscienza e Beatitudine (satya jñāna ānanda rūpa Śiva). Non abbiamo riconosciuto, cioè, che “Io” sono proprio Quello [Tat tvam asi]. Quando confondiamo la corda con un serpente, poiché non abbiamo riconosciuto come “corda” ciò che abbiamo visto e oggettivato come “questo” (idam), siamo illusi pensando che si tratti d’un serpente o d’una fessura per terra. Non è così? Perciò dobbiamo discriminare in modo analogo anche in questo contesto. Quando si dice che il nostro Ātman è l’Essere, Satya, ciò vuole significare che la nostra natura essenziale sussiste eternamente com’è. E quando si afferma che il nostro Ātman è unicamente jñāna svarūpa, si vuole intendere che è proprio dell’essenza della pura, assoluta Coscienza-intuizione. La dichiarazione che il nostro Ātman è ānanda svarūpa indica che quello è della natura essenziale della pura beatitudine. Un insegnamento così elevato va conosciuto intuitivamente. Questo insegnamento è esposto in modo evidente nei Vedānta śāstra.
Obiezione: Se Satya significa ciò che esiste com’è, allora non è forse anche così per una pietra, un albero ecc. che esistono come sono? Se sono Ātman in quelle forme, allora dobbiamo dire che noi tutti sappiamo già d’essere Satya svarūpa, non è vero?
Risposta: Non è così. In verità nessun oggetto esiste come è. Anche le pietre, le rocce ecc. subiscono grandi cambiamenti nel corso del tempo. Esse si frantumano e diventano sabbia. Se le rocce rimanessero com’erano, allora come potrebbero avvenire simili cambiamenti? Perciò bisogna dire che esse subiscono mutazioni in fasi susseguenti durante migliaia di anni. Così, anche nel nostro mondo quotidiano alcune cose appaiono alla nostra percezione grossolana come se esistessero quali sono: per esempio, sebbene dalla creta possano essere plasmati molti oggetti diversi, vasi, piatti, boccali ecc., tuttavia la creta rimane solo creta. Perciò in questo modo se guardiamo da una certa angolatura, possiamo dire che anche tali cose sono satya cioè reali. Ma quando diciamo che: «Ātman è Satya» non intendiamo che è reale in senso manifestato (vyāvahārika). Egli è reale in senso vero e assoluto.
Oltre a questo non c’è nessuna regola per cui le cose empiricamente reali debbano necessariamente essere dotate di jñāna o di coscienza. Per esempio le pietre, la sabbia ecc. sono prive di coscienza (acit). Invece il nostro Ātman è jñāna svarūpa, ovvero dell’essenza della pura Coscienza. Noi sperimentiamo la coscienza in questo modo: «Io conosco questo oggetto»; ma la conoscenza dell’Ātman non è di questo tipo. Quella conoscenza infatti si riferisce a un oggetto particolare, a come appare e scompare, perciò esso non è assolutamente e metafisicamente reale (paramārtha satya). Ātman è reale esattamente come lo è la conoscenza-Coscienza (jñāna). Perciò la conoscenza-Coscienza riferita ad Ātman, vale a dire la sua vera natura di Essere, non è come la conoscenza-coscienza empirica che talora appare [nello stato di veglia] e talora scompare [nello stato di sonno profondo]. Essa esiste nella natura essenziale di Coscienza immutabile e assoluta (kuṭaṣṭha jñāna) al di là d’ogni cambiamento.
Un altro punto da tenere d’acconto è che se dobbiamo ottenere una conoscenza rivolta all’esterno, dobbiamo sforzare il nostro intelletto e, solo dopo aver ragionato con l’intelletto concentrato su un oggetto, raggiungiamo la sua conoscenza. Ma nella natura essenziale della pura Coscienza di Ātman non c’è alcuno sforzo o tensione né c’è alcun dolore o sofferenza per raggiungere alcunché. Essa è per natura assoluta felicità e beatitudine (ānanda). La conoscenza che noi ci sforziamo di raggiungere non può essere Ātman, soltanto perché proviamo piacere o felicità, allorché si fruisce degli oggetti esterni. Quando si dice che Ātman è ānanda s’intende ben altra cosa. Il piacere che nasce dalla fruizione degli oggetti esterni è di natura transitoria, perché sorge e poi finisce; inoltre è un’esperienza che dipende da qualcosa di esterno, come un effetto dipende dalla causa. Ma Ātman è eternamente unico, indipendente e autoluminoso di beatitudine. Così, quando osserviamo certi oggetti del mondo esterno, dal nostro punto di vista grossolano (sthūla dṛṣṭi) può sembrare che per essi siano appropriate le qualità di satya jñāna e ānanda. Ma se esaminiamo le cose per mezzo della visione intuitiva, eccetto Ātman nulla è satya jñāna e ānanda in senso assoluto, per quanto sottile possa apparire. Se è intuita davvero la reale, assoluta natura di Ātman in quanto satya jñāna e ānanda, solo allora è smascherato ed eliminato quel binomio formato da “io” e il mondo (jīva jagatrūra) che gli sovrapponiamo erroneamente.
3- e 4- Adesso esaminiamo insieme la terza e la quarta obiezione, che suonano come segue: è possibile confondere la corda, in quanto oggetto diverso da noi, con un serpente, che, anch’esso, è un oggetto. Ma è possibile ingannare me stesso, che sono il soggetto, e considerare come se avessi un’altra forma? Come si può davvero credere che tutti si sbaglino nel vedere in Śiva una molteplicità di jīva e di oggetti grossolani? Come possiamo credere che se si prescinde dall’Ātman, il mondo, che è della natura di anātman, sia un inganno? Inoltre, nessuno di questi insegnamenti s’adatta all’esempio della corda e del serpente.
Questo, in poche parole, è l’idea che sta dietro alle due obiezioni. Inoltre, nell’obiezione degli oppositori è anche sottinteso il dubbio che se Ātman è per natura satya jñāna e ānanda, come mai in lui può apparire questo mondo pieno di irrealtà (asatya), ottusità (jaḍa) e sofferenza (duḥkha)?
M) Come il sogno appare a causa dell’illusione del sonno[3], così appare il mondo
Prima di fornire una soluzione a queste obiezioni, dobbiamo per forza affrontare un certo problema. Vogliamo dire che l’oppositore è rimasto intrappolato nell’esempio della corda-serpente. Ha pensato, infatti, in questa maniera: «Come in determinate circostanze, una persona erroneamente vede un serpente nella corda, così, trovandosi in una data condizione, si sovrappone il mondo della dualità ad Ātman
Però da un simile ragionamento sorgono molte difficoltà e contraddizioni. Se osserviamo basandoci sull’intuizione, ci si renderà conto che nessuno ha mai fatto l’errore di immaginare che la natura di Śiva fosse il mondo della dualità (saṃsāritva) come nell’esempio [della corda e del serpente]. Ma se ci si pone in una particolare angolatura, ci si convincerà di essere un jīva¸ di vivere in un mondo che comprende molti jīva anch’essi senzienti, assieme a molte altre cose insenzienti completamente diverse. Da un altro punto di vista, guardando la realtà, comprendiamo invece che l’“Io” è veramente il Sé non duale (advitīya Ātman), privo di qualsiasi condizionamento individuale (jīvātva), che è essenzialmente Verità, Coscienza-conoscenza e Beatitudine (satya jñāna ānanda). Tra queste due concezioni, solo la seconda è corretta, perché non appena questa concezione sorge, noi realizziamo, cioè conosciamo intuitivamente che il mondo della dualità (saṃsāritva) è irreale e falso (asatya). Si usa il simbolo della corda-serpente soltanto per affermare questa verità, senza pretendere che tutte le implicazioni di quell’esempio debbano essere coerenti con ciò che simboleggia. Perciò sarà opportuno portare un altro esempio allo scopo di risolvere la terza e la quarta obiezione: quando una persona ha un sogno prodotto dall’ottundimento dovuto al sonno della mente (nidrā), quante fantasmagorie e bizzarrie può allora vedere! Costui dimentica completamente la propria natura e pare perfino rivestito di una forma del tutto diversa; sebbene sia solo, egli testimonia come se davanti a lui esistesse un mondo pieno di esseri umani, animali, piante e alberi, molte cose insenzienti come pietre, sabbia ecc., e vede se stesso come uno in mezzo a quella moltitudine. Anche in questo caso, qual è la realtà? Sia il mondo del sogno (svāpna prapañca), sia la forma in cui la persona (svapna puruṣa) appare lì presente, sono falsi, irreali (asatya). Infatti, solo per il fatto di svegliarsi, tutto ciò scompare e tutto questo multiforme spettacolo sembra essere stato un’esistenza sperimentata all’interno di sé, nella propria mente. Da questo esempio si trae che nessuno di noi volutamente immagina il sogno: esso appare da solo, spontaneamente, ma non è reale. Si può dire la medesima cosa della propria individualità (jīvātva) e del mondo (jagat) che hanno una apparenza di realtà nella veglia. Anch’essi sono immaginati e sovrapposti erroneamente sul nostro Ātman, che è della natura essenziale di Verità, Coscienza-conoscenza e Beatitudine (satya jñāna e ānanda).
N) Il mondo non è reale
Obiezione : Analogamente al serpente, che è erroneamente visto nella corda, anche in sogno appare un inesistente mondo fatto di dualità. È lecito affermare per la medesima ragione che questo mondo della veglia, fatto di dualità, e il saṃsāra che esiste in lui siano fenomeni concepiti erroneamente? Non si può affatto affermare che il mondo empirico sia una mera apparenza portando soltanto un paio di esempi. La semplice affermazione che l’asino raglia, e perciò il musicista, suonando, si comporta esattamente alla stessa maniera, non è sufficiente a decretare che l’armonia d’un musicista sia come lo sgraziato raglio dell’asino. Così quando si paragona per gentilezza la voce stridula d’una certa donna al canto del cuculo, per quanto sforzo d’immaginazione usiamo, quella voce non sarà mai un suono dolce e melodioso. Lasciamo pure che l’esempio della corda e del serpente o quello del sogno illustrino una falsa apparenza. Ma partendo da questa base non si potrà stabilire la realtà del mondo empirico.
Risposta: Come appaiono gli oggetti che hanno una mera parvenza, esattamente così appare anche il mondo empirico. Come i mezzi validi di conoscenza (pramāṇa) eliminano l’errore di credere reali il serpente o il mondo del sogno, allo stesso modo gli stessi pramāṇa eliminano l’errore sulla realtà del mondo. Perciò non c’è alcuna differenza fra gli oggetti di mera apparenza degli esempi e questo mondo empirico di dualità. Per esempio, considera il mondo che appare nel sogno. Proprio come il mondo della veglia, anche il mondo del sogno appare tentacolare davanti a noi; proprio come nello stato di veglia paiono esistere molti esseri umani, animali e uccelli, anche lì, nel mondo del sogno, esistono molti esseri umani, animali e uccelli. Come nel mondo della veglia i jīva nascono, agiscono per un certo tempo e poi muoiono, così nel mondo del sogno pensiamo che i jīva nascano, agiscano per un certo tempo e poi muoiano. Come abbiamo contatti con altri jīva e altri oggetti grossolani nel mondo della veglia, lo stesso accade nel mondo del sogno. Che altro dire? Durante il tempo in cui assistiamo a tutti i fenomeni del sogno crediamo di essere in stato di veglia, anzi, ne siamo convinti. Dal momento che non esiste alcun modo particolare per dimostrare che lo stato che ora chiamiamo veglia non sia un sogno, non esiste nemmeno alcun pramāṇa o alcuna evidenza per dimostrare che solo il mondo dello stato di veglia sia reale. Inoltre, l’esempio dell’esperienza del sogno non è affatto un esempio vano e futile; infatti è un’esperienza universalmente condivisa, una conoscenza intuitiva, sufficiente a convincere chiunque che il mondo empirico della veglia è irreale. Da ciò s’arriva anche alla verità che il mondo della veglia è considerato erroneamente come se fosse Ātman.
Obiezione : Ciò non ci pare corretto. Perché solo dopo che il sogno scompare e appare la veglia, il sogno risulta falso e irreale. Ma, dopo che la veglia scompare, qual è lo stato reale in cui la veglia è considerata falsa? Stando solo nella veglia, è esatto e razionalmente sostenibile affermare che la veglia e il mondo che vediamo nello stato di veglia sono entrambi falsi?
Risposta: Non è importante che dopo essere tornati alla veglia dal sogno, quest’ultimo sia riconosciuto falso; ora dobbiamo esaminare il problema se quella conoscenza sia corretta o no. Essa è veramente corretta, perché nella veglia il mondo del sogno non esiste in nessun luogo. Se il mondo del sogno fosse vero, allora lo potremmo immaginare esistere da qualche parte anche ora. Ma non abbiamo questa esperienza. Abbiamo verificato che il mondo del sogno non esiste affatto né durante il tempo del sogno né ora, nel tempo della veglia. Perciò il sogno e il suo mondo sono entrambi falsi; sono cioè una mera apparenza che si manifesta in quel periodo di tempo. Allo stesso modo, quando siamo in sogno, dov’è il mondo della veglia? Non esiste affatto in nessun luogo. Anche la credenza che il mondo della veglia esista da qualche parte non è presente in noi durante il nostro sogno. Se affermassimo che quando vediamo il sogno, il nostro mondo della veglia, cioè quel mondo che si manifesta solo quando siamo svegli, esiste, allora sarebbe come dire che sperimentiamo allo stesso tempo sia il sogno sia la veglia. Questa affermazione si contraddice da sé. Perciò, dobbiamo per forza affermare che anche il mondo della veglia, come il mondo del sogno, è veramente inesistente (asatya). Comunque, il sogno non è reso falso soltanto per il fatto che usciamo dal sogno e veniamo in un altro stato; abbiamo concluso che esso non è reale dopo aver accertato la sua natura essenziale. Allo stesso modo, quando accertiamo la natura essenziale della veglia, anche quest’ultima sarà riconosciuta irreale. Per decidere in questo modo non è affatto necessario andare in un altro stato di coscienza.
Obiezione: Ammettiamo pure che anche il mondo della veglia sia esattamente una mera apparenza come il mondo del sogno. Ma quale evidenza c’è per sostenere che questa apparenza è erroneamente presa per l’Ātman che è della forma di satya jñāna ānanda? Qual è la nostra esperienza sulla cui base possiamo affermare che il nostro Ātman è della natura di satya jñāna ānanda?
Risposta: A tal fine dobbiamo considerare l’esperienza del sonno profondo. Sebbene nella veglia e nel sogno riconosciamo in noi l’individualità (jīvātva) e il mondo della dualità (jagat), noi esistiamo veramente nel sonno profondo. Poiché nella veglia, nel sogno e nel sonno profondo la nostra vera natura d’Ātman esiste immutabilmente e perennemente, non è nemmeno possibile immaginare che esso non esista. Da ciò si trae che Ātman è la nostra vera natura (satya svarūpa); per la medesima ragione l’Ātman conosce come Testimone (Sākṣin) tutti i jīva e l’intero mondo grossolano inanimato, sia nella veglia sia nel sogno. Egli sperimenta, sempre nella forma di Testimone cosciente (Sākṣin caitanya), lo stato di sonno profondo, ove è assente ogni traccia del mondo della dualità, da cui si evince che Egli è della natura di Coscienza-conoscenza (jñāna svarūpa). Qualsiasi cosa appaia nella veglia e nel sogno è oggetto del suo desiderio [di possesso, mama]. Invece nel sonno profondo, dove non esiste alcun oggetto, l’Ātman sperimenta beatitudine della sua propria pura e assoluta esistenza: da ciò si capisce che la sua vera natura è ānanda. Da questa intuizione si comprende che, dal punto di vista dell’eterna esistenza di Ātman, la conoscenza del mondo della dualità, come si manifesta negli stati di veglia e di sogno, è errata. Ciò significa che il mondo della dualità non esiste affatto indipendentemente dall’Ātman.
O) Io sono il Puro, Perfetto ed Eterno Non-duale
Da quanto si è trattato finora si possono stabilire due punti fermi: 1- Il nostro Ātman è puro e assoluto; 2- In Lui non esistono affatto né le impurità del mondo della trasmigrazione (saṃsāra), né le impurità del mondo duale, grossolano e insenziente.
Inoltre, non ci sono validi mezzi di conoscenza per affermare che: a) Egli è confinato o limitato dai tre stati di veglia, sogno e sonno profondo; b) La loro reciproca relazione dipende solo da Lui. Perché mentre questi stati di coscienza appaiono e scompaiono, l’Ātman sussiste com’è senza mutamenti o trasformazioni. Egli è pūrṇa, perfetto, colmo, completo; è sbagliato credere che egli esista in una peculiare parte del mondo e che, essendo preso nella rete del tempo e dello spazio, soffra tutte le miserie della vita. Dal punto di vista dell’esperienza intuitiva (pūrṇa anubhava) del Sākṣi caitanya non c’è alcun punto in cui Egli non esista. Poiché perfino il concetto di punto è concepito in questa Coscienza-Ātman, questo concetto di punto o porzione di spazio non ha nulla a che fare con ciò che Egli è. Allo stesso modo, Egli non è nemmeno limitato da alcuna misura di tempo, perché anche la condizione temporale Gli è attribuita erroneamente. Qualsiasi cosa limitata da tempo e spazio finisce la sua esistenza in un particolare momento del tempo, per distruzione o per disgregazione delle sue parti. Ma, dal momento che Ātman non può essere limitato da tempo e spazio, è eterno (nitya). Per tutte queste ragioni Egli è eka, uno, non duale; cioè non è un essere dotato di una individualità (jīvatva) o di corpo incosciente (jaḍavastu). Vale a dire non è un essere animato o inanimato, che possa essere considerato un’entità diversa da Lui. È già stato dimostrato che anche durante il periodo di tempo in cui jīva e jaḍavastu appaiono, essi sono solo mere apparenze. Specialmente nel sonno profondo non c’è alcuna contaminazione né traccia di questi fenomeni. Proprio come il sognatore, che è stato Testimone del sogno, rimane allorché il sogno scompare, così quando anche l’apparenza dell’illusione se ne va, allora rimane solo la corda, in quanto essa era il sostrato su cui s’appoggiava l’illusione. Allo stesso modo nel sonno profondo, in cui non c’è nulla della veglia o dello stato di sogno, permane soltanto questo Ātman. Perciò solo l’Ātman è la natura essenziale di quei fenomeni. Ātman nella sua totalità, dunque, è l’Essere unico (eka), veramente non duale (advitīya).
P) Io sono Śiva
L’insegnamento “Io sono Śiva” è, perciò, l’ultima e assoluta verità e realtà. Come gli śāstra enunciano che Parameśvara è la causa della manifestazione, mantenimento e dissoluzione del mondo della dualità, allo stesso modo la nostra natura di Ātman è il sostrato e la causa da cui l’intero universo è manifestato, mantenuto e, infine, dissolto. Come s’afferma che solo Parameśvara è diventato tutto pervadendo ogni cosa, così anche il nostro Ātman svarūpa è diventato tutto. E, allo stesso modo in cui negli śāstra si legge che Parameśvara è in verità eterno (nitya), puro (śuddha), illuminato (buddha), libero per natura (mukta svabhāva), così anche il nostro Ātman è dichiarato nitya, śuddha, buddha, mukta svarūpa, dalla yukti, ovvero dal ragionamento basato sull’l’esperienza intuitiva universale (anubhava). Perciò, com’è scritto negli śāstra, l’Ātman di tutti noi è proprio Śiva.




[1] Attrazione (rāga) e repulsione (dveṣa) sono sensazioni del manas, mentre utilità (artha) e nocività (anartha) sono valutazioni della buddhi [N.d.T.]. 
[2] Con nidrā nel Vedānta s’intende lo stato in cui si cade addormentati, effetto di sonnolenza od ottundimento. Non si deve confondere questo assopimento con il sonno profondo senza sogni. Per lo Yoga, invece, nidrā è quanto sperimentano i pātañjala yogi e i tāntrika durante la pratica del saṃyama, vale a dire dell’insieme degli ultimi tre aṅga dello Yoga, che il Vedānta dichiara illusori. Si tratta d’uno stato mentale liminale tra veglia e sogno, durante il quale si arresta il flusso di pensieri, che appare allora come un “sogno lucido”. Si tratta perciò d’una esperienza che culmina in una visione di tenebra (tamas) o di un nulla (śūnya), rilassante a causa dell’inattività della mente. Nidrā è generalmente confusa con suṣupti dai seguaci della conoscenza del non-Supremo. Cfr. commento agli Yoga Sūtra di Vācaspati Miśra (I, 10) [N.d.T.]. 
[3] Ricordiamo che nidrā è il sopore inteso come condizione tāmasa della mente. Il sonno profondo senza sogni (suṣupti) è invece quando lo si considera come stato di coscienza dell’Ātman [N.d.T.]. 


Traduzione e note di Maitreyī

Da: www.vedavyasamandala.com

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