"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 25 settembre 2017

Satcidānandendra Sarasvatī, Commento a Le Cinque Gemme dell’Advaita di Śrī Śaṃkarācārya - 7/7

Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja
Commento a «Le Cinque Gemme dell’Advaita»
di Śrī Śaṃkarācārya - 7/7
(Advaita Pañcaratnam)


5 - Il beneficio che proviene dal vedānta jñāna
La conoscenza vedāntica può essere considerata corretta dal punto di vista logico; ma a molti può sembrare che da tale conoscenza non si possa trarre alcun vantaggio nella vita empirica.
Come risposta a tali persone citiamo il quinto verso:
5. Io non sono mai nato, cresciuto e morto. Queste qualità di Prakṛti, che sembrano essere in me, in verità appartengono al corpo. Kartṛtva [il fatto di essere un agente], bhoktṛtva [il fatto di essere un fruitore] ecc. appartengono solo ad ahaṃkāra e non a me che sono fatto di pura Coscienza (cinmāyā). Io sono l’unico Śiva.
Commento: Coloro che si interrogano su quale vantaggio possa mai provenire dalla conoscenza vedāntica (Vedānta jñāna), dovrebbero anzitutto riflettere sul loro quesito e chiedersi che cosa potrebbero aspettarsi da tale conoscenza. Coloro che ricercano soltanto cibi, vestiti, ricchezze ecc., non dovrebbero mai pensare di potere ottenere dal Vedānta jñāna benefici materiali senza muovere un dito, come nel mito di quel tale Satrājita[1] che possedeva un gioiello magico chiamato syamaṅtaka maṇi che magicamente lo riforniva di lingotti d’oro. Il Vedānta jñāna non ha mai prodotto simili vantaggi materiali. Invece da un altro punto di vista possiamo ben dire che il Vedānta jñāna è proprio una sorta di gioiello prodigioso, una pietra filosofale (cintāmaṇi), perché tutti i problemi e gli ostacoli (anartha) della vita, che affliggono coloro che non posseggono questa conoscenza, sono rimossi prodigiosamente dal Vedānta jñāna. La gente ordinaria crede fermamente di esser nata in questo mondo da una precedente esistenza, d’essere cresciuta e di morire, per rinascere e infine morire nuovamente e così via indifinitamente. Come risultato di questa credenza essi sperimentano le sofferenze relative alla nascita, alla crescita e l’inevitabile e supremo dolore paventato, la morte. Essi cercano in vari modi di evitare queste miserie: la dolorosa nascita di un bambino, dopo essere stato un feto nel grembo d’una donna; la penosa uscita da una parte vile del suo corpo; le difficoltà subite durante la crescita di quel corpo con l’aumento delle energie vitali, dei sensi, della mente e dell’intelletto; infine, la temuta morte, culmine del processo di decadenza e di dispersione dei soffi vitali (prāṇa). Quando i rimedi a queste cose hanno successo, essi sono euforici; quando falliscono, si disperano. Ci sono persone di un altro tipo che credono che queste miserie siano una parte del nostro destino e che come tali non le si può evitare. Ci sono anche alcuni sciocchi che accusano Īśvara, il Signore e Produttore del mondo, dicendo: «Perché, o Dio, mi hai dato questa miserabile nascita umana?» Infine c’è un certo numero di sconsiderati che pensa: «A parte alcuni difetti, siamo fortunati per molte altre buone qualità proprie della nascita umana.» Questi permettono alla loro mente di essere travolta da godimenti sensuali e da altri piaceri, che sono come gocce d’ambrosia mescolate a veleno, in cui ci si imbatte durante questa effimera esistenza umana. Costoro sono privi di qualsiasi accortezza e si comportano freneticamente come piace loro.
In ogni modo, non c’è nessuno in questo universo che non comprenda di dover nascere, crescere e morire. Tutte queste sono veramente miserie.
Il vero e profondo vantaggio per coloro che hanno raggiunto la Conoscenza intuitiva del Vedānta consiste nel fatto che raggiungono la forte e incrollabile certezza che il loro Ātman non è mai sottoposto a nascita, crescita e morte, né nel passato, né nel presente e nemmeno in futuro.
U) Queste limitazioni connaturate[2], appartengono solo al corpo
Nascita, crescita e morte concernono soltanto il corpo grossolano. Non abbiamo mai assistito né alla nostra nascita, né alla nostra crescita né alla nostra morte. Tutte le idee che ci siamo fatti riguardo alla nascita, alla crescita e alla morte [che abbiamo osservato nel mondo] appartengono solo ai corpi altrui che nascono ossia che vengono a questa esistenza, crescono e muoiono, ovvero che escono da questa vita. Anche l’idea che altri osservino la nostra nascita, crescita e morte, fa parte del nostro punto di vista apparente. Perciò tutte queste caratteristiche in realtà sono pertinenti ai corpi grossolani e non a noi stessi.
Obiezione: Anche il corpo è solo nostro, perciò la sua nascita, crescita e morte appartengono solo a noi, non è vero?
Risposta: Se teniamo presente tutto ciò che abbiamo detto prima, non c’è ragione di sollevare questa obiezione. Perché se ci appoggiamo sull’Intuizione (anubhava), l’affermazione che esiste una relazione particolare tra il nostro corpo e il nostro Sé non può essere sostenuta al di là d’ogni dubbio. Oltre a questa considerazione, anche se abbiamo un solo corpo [nel mondo della veglia], otteniamo centinaia di corpi in altrettanti sogni. Con quale di questi corpi dovremmo identificarci affermando: «Solo questo è il mio?» Qualora affermassimo che: «Poiché i corpi del sogno sono diversi, il corpo della veglia, che è unico, è il nostro proprio.», anche questa affermazione non può essere sostenuta perché, come abbiamo previamente stabilito, dato che non esiste alcuna differenza tra il sogno e la veglia, non può essere risolto con certezza il problema a chi appartenga il corpo della veglia. Perciò da tutti questi ragionamenti si può stabilire che le caratteristiche della nascita, crescita e morte si manifestano solo nei corpi che sono mere apparenze; dunque non esiste alcuna relazione fra quel corpo apparente e il nostro Sé. Si deduce, infine, che tutte le caratteristiche limitanti connaturate appartengono solamente al corpo.
Prakṛti significa la sostanziale natura dell’ignoranza (ajñāna svabhāva). Precedentemente l’abbiamo chiamata māyā. Tutti questi cambiamenti che abbiamo erroneamente pensato a causa dell’ajñāna appartengono solo a questo corpo illusorio (māyika śarīra) e non esistono realmente.
V) Kartṛtva, bhoktṛtva ecc. sono qualità di ahaṃkāra, non di Ātman
Obiezione: Dire che non esiste alcuna relazione tra il corpo e il nostro Sé non ci pare corretto. Perché tra il corpo e noi stessi esiste la relazione che intercorre tra una proprietà e il suo proprietario. Cioè, il corpo appartiene a noi e noi siamo i suoi signori. Utilizziamo il corpo, i sensi ecc. e compiamo azioni (karma) e poi godiamo dei frutti che ne risultano. Per godere dei frutti delle azioni compiute in nascite precedenti, ci è stato dato proprio questo corpo; anche in futuro, allo stesso modo, ci saranno dati altri corpi in altre nascite, non è forse vero?
Risposta: Dal punto di vista vyāvahārika sono ‘reali’ tutti i seguenti concetti: 1) Abbiamo strumenti di conoscenza e azione come il corpo, i sensi e la mente. 2) Usando questi strumenti compiamo varie azioni e ne traiamo meriti (puṇya) o demeriti (pāpa). 3) A causa di questi meriti o demeriti si producono future nascite.
Ma quello che stiamo seguendo ora è il punto di vista metafisico (pāramārtika). Da questo punto di vista sia il mondo della dualità (jagat) sia il corpo che in esso esiste sono illusori (māyika). Non possiamo affermare che sia la nostra vera natura essenziale ad avere qualche relazione con il corpo, perché nello stato di sogno non abbiamo alcuna relazione con esso; e nel sonno profondo addirittura non abbiamo alcun corpo. Inoltre, se continuamo a conservare questo punto di vista, in verità non abbiamo nemmeno kartṛtva, ovvero, la qualità di essere un agente, in quanto solo quando siamo associati all’ego (ahaṃkāra) pensiamo di star compiendo tale o talaltra azione. Desiderare un oggetto e, allo scopo di approprirsene, provare la volontà (saṃkalpa) e decisione (niścaya), di compiere una azione (karma) volta ad acquisirlo, tutti questi pensieri dipendono da ahaṃkāra e non possono essere attribuiti alla nostra vera natura (svarūpa). Poiché nel sonno profondo e in altri stati analoghi[3] non abbiamo alcuna relazione con ahaṃkāra, il fatto d’essere un agente (kartṛtva) non esiste, e ciò è stabilito sulla base dell’esperienza intuitiva.
Obiezione: In tal caso si può arrivare ad affermare che: 1) Non siamo responsabili per le azioni che compiamo. 2) Non esistono né compiere azioni, né ottenere i meriti e i demeriti che ne derivano, né godere dei loro frutti. Che senso ha tutto ciò? Seguendo questo ragionamento si giungerebbe a dire che non esistono per niente né la Liberazione (mukti), che deve insorgere dallo studio del Vedānta né il legame (baṅdha) da cui ci si deve liberare per mezzo di questa mukti. Tutte queste cose ti vanno bene?
Risposta: Anche quest’obiezione sorge a causa della mancanza di discriminazione dei punti di vista vyāvahārika e pāramārtika. Dal punto di vista vyāvahārika, quando abbiamo una relazione con ahaṃkāra, appare in noi l’illusione - che le è associata - di essere degli agenti (kartṛtva) e dei fruitori (bhoktṛtva) delle azioni. Se osserviamo dall’angolatura empirica, non è possibile affermare che i concetti di dharma e il suo opposto adharma non esistano. Infatti nei nostri śāstra le ingiunzioni (vidhi) e le proibizioni (niśedha) sono state imposte solo allorché s’assume questo punto di vista. Ovvero, da questo punto di vista, nessuno dei concetti, come merito (puṇya), demerito (pāpa) e salvezza (svarga, cieli), è falso. Ma se osserviamo intuitivamente dal punto di vista pāramārtika, allora noi non abbiamo alcuna relazione con ahaṃkāra; e in noi non esiste nemmeno alcuna caratteristica agente (kartṛtva). Quando tagliamo un albero con un’ascia, quest’ultima si muove su e giù senza spostarsi. Infatti è la mano di colui che taglia a cambiare di posizione. Ma non possiamo dire che usiamo l’ego (ahaṃkāra) per mezzo di kartṛtva, come l’ascia dell’esempio. Perché quando compiamo un’azione, sebbene ci siano alcuni mutamenti o cambiamenti in ahaṃkāra, nella nostra reale natura (svarūpa) non avviene alcun cambiamento. In verità noi siamo la Coscienza-Testimone (ossia stiamo oggettivando) sia dell’ahaṃkāra sia delle sue mutazioni. Il fatto d’agire e di fruire di ahaṃkāra è erroneamente sovrapposto a noi a causa dell’illusione (bhrānti), e non esiste realmente nella nostra natura essenziale. Ora tutto diventa chiaro per quel che riguarda le funzioni empiriche della limitazione (baṅdha) da cui ci si deve liberare con il mokṣa. Come risultato della relazione fra ahaṃkāra e il nostro vero Sé, provocato dall’ignoranza (avidyā), si sono prodotte le diverse triadi del legame karmico, composto da azioni (kriyā), mezzi dell’azione (kāraka) e risultati dell’azione (phala), e del legame della conoscenza duale, composto da conoscitore (jñātṛ), conoscenza (jñāna) e conosciuto (jñeya). Per questo motivo l’insegnamento vedāntico per cui ci si deve liberare dall’ignoranza (ajñāna) e raggiungere la Conoscenza (jñāna), per mezzo dell’ascolto della dottrina (śrāvaṇa), riflessione su di essa (manana) e contemplazione (nididhyāsana), al fine di sciogliere il legame (baṅdha), è valido anche dal punto di vista empirico (vyāvahārika). Ma quando si osserva intuitivamente dal punto di vista assoluto (pāramārtika), dato che allora non si ha alcuna relazione con l’ego (ahaṃkāra), la nostra vera natura essenziale non è limitata da alcun legame (baṅdha) né è liberato da alcunché. Quindi, anche le distinzioni di limitazione (baṅdha), iniziato (sādhaka), metodo (sādhana), Liberazione (mokṣa) ecc. dal punto di vista pāramārtika non esistono affatto e proprio in questo consiste il più elevato insegnamento vedāntico (paramsiddhānta). Questo insegnamento così profondo è la cosa più desiderabile di tutte, perché nella visione pāramārtika nessuna cosa desiderata (iṣṭa) o non desiderata (aniṣṭa) esiste minimamente. Solo Paramātman esiste unico e non duale nella sua suprema gloria.
Obiezione: Se dici che il fatto d’agire (kartṛtva) e di fruire (bhoktṛtva) degli effetti prodotti, che esistono in ahaṃkāra, sono di fatto sovrapposti ad Ātman, questo non ci induce a dire che ahaṃkāra è cosciente e senziente?
Risposta: Se osserviamo attentamente, visto che Ātman è eternamente libero (nityamukta), in lui non ci può mai essere alcun kartṛtva. Analogamente, poiché ahaṃkāra è perennemente insenziente (nityajaḍa), anche ahaṃkāra non ha alcun kartṛtva e bhoktṛtva. Ciò nonostante, dal punto di vista vyāvahārika, compare la facoltà d’agire (kartṛtva), in quanto in ahaṃkāra si producono cambiamenti, mentre in Ātman non c’è mai alcun cambiamento. Allora, e soltanto dal punto di vista grossolano (sthūla dṛṣṭi), ahaṃkāra stesso è considerato come fosse un soggetto agente (kartṛ). Questo è quanto.
Obiezione: Non è vero che Ātman passa da uno stato a un altro? E che quando va in sonno profondo egli rimuove ahaṃkāra e kartṛtva, e quando torna alla veglia egli li riassume? In questo senso, non ti pare che in lui ci sia kartṛtva?
Risposta: Ātman non va né viene da nessuna parte. Né assume qualcosa, e nemmeno rimuove qualcosa. Proprio come in cielo, anche se le nuvole vanno e vengono, lo spazio rimane immutato, puro e incontaminato, così egli rimane completamente immutato, puro e immacolato nella sua natura di Coscienza pura (caitanya svarūpa), benché ahaṃkāra e kartṛtva appaiano illusoriamente sovrapposte ad Ātman a causa della sua māyā. Abbiamo ripetutamente affermato che né i tre stati (trayāvasthā) né i fenomeni come ahaṃkāra e kartṛtva, che appaiono in quegli stati di coscienza, sono assolutamente reali. Se ricordiamo e facciamo nostra questa verità suprema e profonda che emerge potentemente alla nostra mente e al nostro intelletto, allora nessuna sovrapposizione o illusione d’essere un agente e un fruitore dei risultati delle azioni kartṛtva e bhoktṛtva potrà mai apparire reale nell’Ātman.
W) Perciò io sono Śiva
Quando consideriamo la somiglianza tra i tre esempi della corda e il serpente, del sogno e del riflesso nello specchio, e li associamo con Ātman, e osserviamo questa nostra riflessione dal punto di vista dell’esperienza seconda del grado di fermezza di questa cognizione, si radica in noi l’esperienza o coscienza intuitiva d’essere in verità Paramśiva, eternamente puro (nitya śuddha), pienamente completo (paripūrṇa) non duale (advitīya), che è la nostra natura reale, cosciente e beata (saccidānanda svarūpa). Coloro che hanno sostegno e forza da questa esperienza intuitiva, saranno liberi dalla paura e saranno vibranti di coraggio. Rifuggendo da comportamenti licenziosi, adotteranno spontaneamente una retta condotta; saranno liberi dall’incapacità di discriminare e, in un certo senso, raddoppieranno la loro capacità di discriminazione. Ingiustizie, colpe e demeriti scompariranno da loro e, invece, diventeranno ornamento del loro cuore qualità pure come il senso della giustizia, la compassione e la premura a procurare felicità a tutte le creature. Ozio e indolenza si trasformeranno in zelo a favore degli altri. In nessuna parte cui rivolgano la loro attenzione ci sarà sofferenza e ovunque testimonieranno il gioco cosmico (līlā) di Parabrahman, che è per sua natura Vero, Cosciente e Beato (satya jñānam ānanda svarūpa). Questa conoscenza benefica e auspiciosa d’essere in verità Śiva, dovrebbe essere raggiunta da tutti. E, allorquando non insorgesse immediatamente, dovremmo almeno cercare di acquisire la corretta purificazione della mente per poi poter accedere a questa beata Conoscenza del Sé.
OṂ TAT SAT




[1] Viṣṇu Purāṇa, IV.13 [N.d.T.].
[2] “Connaturato” è qui usato per definire qualcosa che si trova nell’individuo fin dalla nascita; innato [N.d.T.]. 
[3] Lo svenimento, il coma, il samādhi ecc [N.d.T.]. 


Traduzione e note di Maitreyī

Da: www.vedavyasamandala.com

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