"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 6 marzo 2018

Gian Giuseppe Filippi, Il Serpente e la Corda - II Parte - 20. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (VII)

Gian Giuseppe Filippi
Il Serpente e la Corda

I Parte
La prima parte de Il Serpente e la Corda si trova nel blog QUI.
II Parte
Commento al Tattvamasi di Śaṃkarācārya

II Parte

20. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (VII)
114. Sbagli se pensi che la dottrina del riflesso implichi una modificazione per l’entità che si riflette, perché tale modificazione è illusoria come l’apparenza del serpente sulla corda e come l’esempio, già illustrato, del riflesso della faccia nello specchio.
Il riflesso del sole sulla superficie d’uno stagno può essere deformato e mosso dalle increspature del piano di riflessione acqueo. Il sole non viene intaccato da questi movimenti della superficie, perché l’increspatura delle onde appartiene alla natura dell’acqua e non a quella del sole. Il riflesso si muove e si deforma a causa della capacità di muoversi e modificarsi dell’acqua su cui si riflette. Ma le sue modificazioni e movimenti sono illusori, perché il riflesso è solo apparenza, come il serpente sovrapposto alla corda, come la faccia sovrapposta allo specchio.
115. Obiezione:[1] Tu, obiettore, sostieni che la nozione del riflesso del Sé non può aver fondamento, a meno che lo si concepisca come indipendente dal Sé. Mentre la faccia e lo specchio li si concepisce indipendenti l’una dall’altro, il riflesso del Sé può essere accettato soltanto per mezzo di una dimostrazione basata su un circolo vizioso, in quanto la conoscenza del riflesso dipende da quella del Sé e quella del Sé dipende da quella del riflesso;
Secondo questo obiettore sia la faccia sia il riflesso della faccia nello specchio sono provati in tutta evidenza dalla percezione sensoria. Quell’esempio però non è applicabile a ciò che gli advaitin chiamano “riflesso del Sé”. Infatti si ha consapevolezza dell’esistenza dell’aham, mentre non c’è alcuna prova dell’esistenza del Sé di cui l’aham sarebbe il riflesso. Perciò è impossibile stabilire che l’aham sia di fatto un riflesso di qualcos’altro senza cadere nell’errore logico del circolo vizioso (anyonyāśrayadoṣa). Perché l’advaitin afferma di conoscere il Sé per stabilire che l’aham è un riflesso del Sé. Ma, allo stesso tempo, afferma anche di conoscere l’aham per stabilire l’esistenza del Sé che si riflette. Quindi per questa via non si può provare né che l’aham sia un riflesso del Sé, né che esista un Sé reale di cui l’aham dovrebbe essere un riflesso.
116. perché sostieni che noi [vedāntin] pretendiamo di conoscere che il Sé esiste indipendentemente dal riflesso prima ancora di affermare che il riflesso è realmente un riflesso del Sé. E, sempre secondo te, noi pretendiamo di conoscere che il riflesso è realmente un riflesso del Sé prima di affermare che il Sé esiste indipendentemente dal riflesso.
La scuola di Bhartṛprapañca sostiene che il riflesso, cioè l’ego, è una parte del Sé, come se il Sé potesse avere parti; perciò l’ego, essendo una parte del Sé, ha una sua realtà distinta e non è una mera apparenza riflessa. Questi bhedābheda vedāntin[2] rimproverano agli advaitin di cadere nell’errore logico detto anyonyāśraya, “mutua dipendenza dell’effetto e della causa” o “ragionamento circolare” oppure, usando il corrispettivo della retorica classica, διάλληλος, “circolo vizioso”. Errore che non si presenta nell’esempio della faccia e dello specchio, in quanto, nell’esperienza comune, la faccia, lo specchio e il riflesso hanno tutti un’esistenza reale verificabile tramite i sensi e l’indagine mentale.
117. Risposta del vedāntin: Ma non è affatto così, perché nello stato di sogno l’intelletto e le sue modificazioni, da una parte, e il Testimone cosciente dall’altra, sono chiaramente distinti. In quello stato non ci sono né carri né altri oggetti esterni[3] [poiché quegli oggetti che si vedono in sogno sono solamente interni], perciò il Sé lì deve avere direttamente per oggetti le modificazioni mentali.
Nello stato di veglia si vedono carri, cavalli e altri oggetti esterni al corpo del cercatore che osserva (dṛś) il mondo intorno a sé. Questi oggetti appaiono dotati d’una loro esistenza reale e indipendente. Nel sogno non ci sono oggetti esterni, ma solo oggetti che dimorano all’interno del sognatore che è il Testimone e il soggetto che osserva il sogno. Cosicché, quando si ritorna alla veglia, risulta certo che, quando si era in sogno, l’intelletto, la mente, i sensi e le loro modificazioni, carri cavalli ecc., erano gli stessi oggetti testimoniati direttamente dalla luce dell’Ātman. In altri termini, il Sé e l’intelletto, in sogno, sono rispettivamente il soggetto e l’oggetto chiaramente distinti, senza ulteriori oggetti che, come avviene nel caso della veglia, appaiano come fossero realmente esterni e distinti dal Sé e dalla buddhi. Nel sogno il Sé si manifesta in tutta evidenza come Coscienza auto luminosa[4], perché lì non ci sono oggetti esterni che siano fonti di luce, come il sole, la luna, le stelle e il fuoco. E nemmeno la vista, che, essendo una modificazione mentale, nello stato di sogno è un oggetto del sogno. Perciò non è possibile che la luce che illumina i sogni possa avere una fonte diversa da quella della Coscienza, cioè del Testimone. Quindi in sogno si ha esperienza sia dell’Ātman auto luminoso sia degli oggetti illuminati, che sono modificazioni mentali. Perciò non si può sostenere che in svapna avasthā questa esperienza diretta del Sé auto luminoso che osserva (dṛś) gli oggetti, cioè la fantasmagoria onirica di carri, cavalli ecc. (dṛśya), ricada nel caso del “circolo vizioso”. Questo perché in sogno, a differenza di ciò che sembra apparire nella veglia, non si presuppone una ipotetica esistenza del Sé, ma la si riconosce direttamente come l’osservatore (dṛś) del sogno. La prova dell’esistenza del Sé non dipende dunque affatto dall’esperienza del riflesso, poiché il riflesso è sperimentato separatamente dal Sé e in simultaneità. E questa è un’esperienza che anche la gente comune fa ogni volta che sogna.
118. Nello stato di veglia quando si sperimentano le percezioni sensorie, le modificazioni mentali, pervase dalla Coscienza, vengono in esistenza in forma di oggetti. Ora, ciò che imprime le loro forme a queste modificazioni si dice che siano gli oggetti esterni.
Dopo che si è dimostrato, attraverso l’osservazione della svāpna avasthā, che il Sé, pura Coscienza, è direttamente sperimentato come Testimone del sogno e che è distinto dalle modificazioni mentali che sono la visione onirica (svāpna darśana), si procederà ad attestare la medesima cosa analizzando la natura dello stato di veglia. Riportando dunque all’esperienza della veglia le deduzioni tratte dall’esame dello stato di sogno, si potrà verificare che nemmeno nel jāgrat avasthā esiste l’errore del “circolo vizioso”. Nello stato di veglia quando si sperimentano le percezioni tramite i sensi, si dice che esse siano prodotte da oggetti esterni. La mente e l’intelletto svolgono un ruolo apparente di conoscitori grazie al fatto che la Coscienza li rende parzialmente capaci di conoscere, tenendo sempre ben presente che non si tratta di vera conoscenza, ma di una azione investigativa. Così, si dice che, per mezzo dei sensi, la buddhi entra indirettamente in contatto con degli oggetti esterni. Sono i sensi che, avendo percepito direttamente, “informano” la mente e l’intelletto dell’esistenza di quegli oggetti presuntamente esterni; nel senso che trasmettono quelle forme (ākāra) degli oggetti manas e alla buddhi che non hanno la capacità di percepirle direttamente. A questo punto è necessario sottolineare che per il Vedānta le facoltà di sensazione (jñānendriya) e le facoltà di azione (karmendriya), a differenza di quanto sostiene il Sāṃkhya, non sono affatto delle entità od oggetti separati (tattva), ma delle semplici modificazioni mentali. Quando la mente guarda, appare la sua modificazione chiamata “vista”; quando ascolta, la mente prende la forma dell’“udito” e così via. La mente è messa al corrente dell’esistenza di oggetti esterni solo per mezzo di quelle sue modificazioni che sono i sensi. E la mente, perciò, non può avere alcuna certezza della reale esistenza degli oggetti esterni. Quando la mente guarda, gli oggetti sono presenti, quando non guarda gli oggetti non ci sono. Le modificazioni mentali assumono perciò tali forme che sono indirizzate a due diverse destinazioni: esse diventano ricordi (smaraṇa) depositati nella memoria (smṛti), o idee (kalpa) da elaborare con l’immaginazione (kalpanā). Su questa base l’uomo ordinario crede che ogni sua forma mentale sia un oggetto esterno, mentre invece è solo frutto delle modificazioni del suo pensiero. Concludendo, il Testimone ha conoscenza degli oggetti del mondo esterno in quanto forme assunte dalle modificazioni dell’intelletto e della mente ecc. Perciò anche nella veglia gli oggetti di conoscenza del Testimone sono direttamente la buddhi, il manas e le loro rispettive modificazioni quando assumono quelle forme: esattamente come nello stato di sogno. Perciò la śruti afferma:
“[...] ma, Yājñavalkya, quando il sole e la luna sono tramontati, il fuoco è spento, e ogni suono tace, quale luce illumina questo puruṣa?» «O Re, è la luce dell’Ātman. Illuminato dalla luce dell’Ātmanil puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa.»”[5].
Ribadiamo, dunque, che anche nello stato di veglia, in realtà, la luce non proviene dai luminari celesti né dal fuoco né dalla voce che la sostituisce, ma dallo stesso Testimone, il soggetto auto luminoso. E poiché gli oggetti di tale illuminazione sono invero le forme assunte dalla buddhi, dal manas, dagli indriya e dalle loro modificazioni (e non direttamente gli oggetti presuntamente “esterni”), è dimostrato che lo stato di veglia non differisce da quello di sogno. Perciò anche nello stato di veglia non si presenta affatto l’errore del “circolo vizioso”.
119. Quest’ultimo [l’oggetto “esterno”] è l’obiettivo di una azione [conoscitiva] da parte di un agente che desidera ottenerlo. A chi ha un tale desiderio viene ingiunto di compiere le azioni stabilite. Nel contesto dell’azione per conoscere un oggetto, l’intelletto che subisce la modificazione in forma dell’oggetto, è considerato lo strumento per conoscere l’oggetto.
Si aspira a conoscere un oggetto esterno quando si è mossi dal desiderio di ottenerlo, ovvero di farlo diventare parte del “mio”. Questo vale sia per il profano sia per il sādhaka che medita sui simboli, mosso dal desiderio di raggiungere e “conquistare” il Brahman saguṇa. In questo secondo caso l’azione di investigare, invece di sorgere spontaneamente dall’avidità dell’ahaṃkāra, avrà come origine l’ingiunzione da parte di un guru[6]. Tuttavia, in quest’ultimo caso, l’intelletto, che subisce la modificazione nella forma dell’oggetto presentatogli dagli indriya, che sia questa la forma percepibile tramite la vista, yantra, oppure quella vibratoria attuata tramite la parola, mantra, l’intelletto, si diceva, agisce semplicemente come strumento d’indagine, il cui soggetto è l’ego. La modificazione intellettuale, allora, deve essere considerata come una creazione immaginifica della forma suggerita simbolicamente dagli oggetti “esterni”, e apparirà mentalmente a ciascun sādhaka come una sintesi del cosmo proiettata a livello sottile, corrispondente al metodo impartito dal proprio guru.
120. Concludendo, l’intelletto pervaso dal riflesso della Coscienza è chiamato “conoscitore” nel senso di soggetto dell’azione di conoscere. Chiunque sappia discriminare i tre [conoscente, azione per conoscere e conosciuto] dal Testimone è un vero conoscitore del Sé.
L’intelletto pervaso del riflesso della Coscienza assume una parvenza di coscienza. In questo modo sembra essere il conoscitore (jñātṛ o jñātā) degli oggetti “esterni”, come soggetto (grāhaka, pramātṛ viṣayin) di una azione volta a conoscerli. Ma il cercatore, dotato di discriminazione, rimuove come illusoria la triade composta da un soggetto che agisce per conoscere degli oggetti conoscibili per mezzo di una azione conoscitiva; questo perché riconosce che l’unico conoscitore del Sé è il “tu” (tva) in quanto Testimone.
121. Le modificazioni dell’intelletto sfumano l’una nell’altra e sono dette “idea veridica”, “idea dubbia” e “idea errata”. La Coscienza [che si riflette] in tutte loro è unica e la differenziazione è esclusivamente dovuta alle modificazioni.
Le modificazioni dell’intelletto che assumono le forme degli oggetti “esterni” hanno come base unica la stessa buddhi; però man mano che assumono le forme degli oggetti “esterni”, si allontanano progressivamente dalla loro stessa origine. Le forme che si producono per prime appaiono come “idee veridiche”, per poi sfumare in “idee dubbie” e infine in “idee errate”, seguendo il processo dinamico dei tre guṇa, sattva, rajas e tamas. Questa progressiva differenziazione delle idee dovute alle modificazioni mentali è illimitata come la produzione della serie numerica, mentre la Coscienza che vi si riflette è unica.
122. Come il cristallo assume diversi colori che compaiono [sulle sue sfaccettature] come apparenze (upādhi) proiettate dal contatto con oggetti che hanno tinte diverse, così ogni impurità e modificazione attribuite alla Coscienza, appartengono in realtà alle modificazioni dell’intelletto.
La medesima argomentazione si trova nel Sūtra Bhāṣya in forma leggermente ampliata, che qui può essere menzionata a commento di questo śloka 122:
“Quando un cristallo [è posato sopra un oggetto colorato], la trasparenza e l’assenza di colore che sono la sua natura essenziale, appaiono indistinguibili dal rosso, dal blu e da altre forme e colori che gli si associano, prima che lo si riesca a distinguere [dall’oggetto colorato su cui giace]. Ma quando, con l’aiuto della discriminazione, che nasce dall’uso dei validi mezzi di conoscenza, si riesce a distinguerlo, il cristallo pare aver recuperata la sua vera natura di trasparenza e assenza di colore. In realtà esso è esattamente com’era prima. Questo è anche un esempio di come, nel caso del jīvātman, che appare indistinguibile dai condizionamenti che gli sono associati, come il corpo ecc., la conoscenza discriminante [neti neti], proveniente dall’apprendimento della śruti, lo distingue dal corpo. Il risultato di quella conoscenza discriminante è la realizzazione della propria vera natura.”[7]
In questa ultima citazione è affermata l’identità del jīvātman con il Testimone. Solamente gli ignoranti possono supporre che il jīvātman sia l’“io” individuale[8], proprio perché attribuiscono al cristallo le tinte dell’oggetto a cui è appoggiato.
Va da sé che ciò che qui è definito upādhi, apparenza, è esattamente sinonimo di adhyāsa, sovrapposizione.
123. Le modificazioni dell’intelletto sono manifestate, conosciute e dotate d’esistenza grazie a un principio da loro differente, quel Sé che è conosciuto immediatamente. Questa deduzione è illustrata con l’esempio della lampada, per provare che il Testimone deve necessariamente esistere al di là delle modificazioni dell’intelletto.
Le modificazioni della buddhi devono la loro apparente esistenza e realtà al fatto di essere oggetti di cui il Sé è Testimone, esattamente come l’apparente esistenza, realtà e percettibilità del serpente dipendono dalla reale esistenza della corda. Alcuni [gli yogacāra buddhisti] pensano che la realtà della corda dipenda dalla luce che, illuminando meglio l’ambiente permette di far svanire il serpente illusorio. A sua volta, la luce è più forte e in grado di illuminare meglio in ragione di una ulteriore causa; così questa dimostrazione cade nell’errore logico del regressus ad infinutum (anavasthāprasaṅga). Invece all’esempio della lampada com’è usato da Śaṃkara non può essere imputato tale errore, perché la luce della lampada altro non è se non l’azione della discriminazione che fuga le tenebre dell’ignoranza, mentre l’occhio che vede la corda illuminata è il Testimone della realtà.
124. Si può indurre una persona a conoscere quel Principio che è differente dalle modificazioni per mezzo di strumenti di prova positivi, oppure è soltanto per via negativa, ossia rimovendo tutto quello che non è quel Principio senza mai usare alcun mezzo positivo?
A questo punto si ripropone la questione se il Sé, che è differente dalle modificazioni dell’intelletto, mente, sensi, corpo ecc., possa essere conosciuto con l’uso dei pramāṇa; ossia se possa essere provato e realizzato per mezzo dello studio della śruti, della deduzione, dei sensi ecc. Oppure, se il Sé possa essere conosciuto solo ed esclusivamente per via negativa, rimovendo tutto ciò che è anātman senza mai usare nemmeno una volta alcun mezzo positivo.
125. Se su questo argomento tu sostenessi che si deve usare esclusivamente la negazione, il “neti neti”, per il fatto che si tratta d’un metodo basato in tutto e per tutto sull’autorità della śruti, risponderemo che in questo caso alla fine arriveresti solo al puro vuoto, poiché non avresti preso per nulla in considerazione l’intuizione dell’esistenza del Testimone.
Nonostante le apparenze, chi opta per un metodo esclusivamente negativo, a esclusione di qualsiasi intuizione positiva, commetterebbe un grave errore, paragonabile soltanto a quello dei buddhisti. È vero che la śruti insegna questo metodo, ma se si accettasse soltanto questo insegnamento si farebbe della śruti un testo eterodosso e si arriverebbe a pensare che, dopo aver discriminato tutte le apparenze e le falsità, non rimarrebbe altro che il nulla, il vuoto (śūnya). Infatti il vedāntin, prima di discriminare, deve partire dall’intuizione dell’esistenza del Testimone. Altrimenti chi mai sarebbe colui che discrimina? Infatti, dopo aver discriminato e rimosso tutte le false apparenze, il Vedānta arriva alla conferma che l’unico esistente che rimane, alla fine, è l’unico cosciente, il Sākṣin. La śruti certifica l’esistenza della pura Coscienza, ma non può insegnarla, perché il Testimone non può essere conosciuto, perciò non può essere insegnato. La śruti può solo insegnare il metodo della discriminazione, ma, al tempo stesso, afferma l’esistenza del Brahman-Ātman sulla base dell’intuizione universale, non la teoria negativa (nāstika) del vuoto.
126. Se tu rispondessi: “Tu sei cosciente, come potresti allora essere questo corpo non cosciente?” noi replicheremo che obietti in questo modo perché non ti è nota l’esistenza del Testimone. Anche questa tua argomentazione procede dalla mera negazione di ciò che è non-Sé e potrebbe essere valida solo se tu avessi già riconosciuta l’esistenza della pura Coscienza per qualche altra via.
Un obiettore del Vedānta che volesse negare l’esistenza del Testimone cosciente può arrivare a dire che i sensi, oppure la mente, o l’intelletto e infine l’“io”, sono realmente coscienti, mentre il corpo non lo è. Per la verità costui, seguendo questo ragionamento, potrebbe anche affermare che persino questo corpo è dotato di una sua coscienza organica, se paragonato agli oggetti inanimati in cui ci si imbatte nel mondo esterno. Ma questo procedimento logico non è valido a dimostrare l’inesistenza del Sākṣin; semplicemente prescinde dalla conoscenza che il Testimone esista. Infatti, qualora si cominciasse dall’evidenza dell’esistenza del Sé, allora tutto il processo deduttivo summenzionato sarebbe accettabile e ricalcherebbe il metodo del “neti neti”. Dopo che si è dimostrato che il corpo è privo di coscienza, si potrebbe allora procedere per esclusione provando successivamente che sensi, mente, intelletto sono anch’essi privi di coscienza, fino ad arrivare all’aham. Perché mai, allora, l’obiettore dovrebbe fermarsi a questo punto, senza concludere il suo procedimento discriminativo e risparmiando l’ego da un simile atto discriminativo? L’unico motivo che spieghi questa interruzione della dimostrazione va imputato al fatto che costui ignora l’esistenza del Testimone. Il vedāntin, invece, arriva a questa meta rimovendo tutto ciò che è anātman dall’Ātman.
127. Se qualcun altro dicesse che il Testimone è immediatamente evidente (aparokṣa), noi gli ribatteremo che allora dovrebbe essere evidente anche agli ignoranti, come, per esempio, ai buddhisti.
Ci potrebbe essere anche qualcuno convinto che l’intuizione dell’esistenza del Testimone sia evidente a tutti. Secondo questo punto di vista tutti sanno di esistere e di essere coscienti. Ma ciò non corrisponde al vero, perché altrimenti tutti sarebbero dei jijñāsu e non potrebbero esistere né profani, né, tanto meno, sostenitori del materialismo (cārvāka) né seguaci delle teorie buddhiste del vuoto (śūnyavādin) o della negazione dell’(anātmakavādin). Di fatto tutti hanno questa esperienza, ma, con l’eccezione dei jijñāsu, quasi nessuno si rende conto che quell’intuizione è la prova dell’esistenza del Sākṣin.
128. Potrai anche dire che qualcuno ricorda d’averlo visto. [Secondo te] questo ricordo, in questo stesso momento presente, proverebbe la simultaneità di chi compie l’azione di conoscere, della conoscenza e dell’oggetto di conoscenza, in quanto è l’esperienza del Conoscitore permanente, che è colui che conosce.129. Ma, dato e non concesso solo per amor di discussione che la memoria sia un valido mezzo di conoscenza, questi tre, cioè l’agente che si è impegnato nell’atto della conoscenza, l’atto di conoscere e l’oggetto conoscibile che alla fine diventa conosciuto, si sono tuttavia svolti in successione temporale. Anche il ricordo, che arriva per ultimo nel tempo [a conclusione dell’azione conoscitiva], deve aver ugualmente registrato a suo tempo la successione di questa azione cognitiva. La loro simultaneità nel ricordo attuale deve quindi apparire tale a causa della rapidità con cui, nel momento attuale, si richiamano alla mente le tre fasi.
L’oppositore potrebbe anche sostenere che ci possono essere delle persone che in passato hanno avuto una certa esperienza del Sākṣin, espressa dalla formula “averlo visto”. Il ricordo di questa esperienza, all’attimo presente, appare come un’immagine simultanea, come se l’esperienza fosse rimasta immutabile e permanente nella coscienza di quelle persone. Essi sosterrebbero che la conoscenza è sì una azione da parte di un agente nei confronti di ciò che deve essere conosciuto, ma che questa azione sarebbe atemporale, senza fasi e, perciò, permanente; affermazione di per sé contraddittoria. Tuttavia la memoria non è un pramāṇa, è soltanto un deposito di forme illusorie assunte dalle modificazioni dell’intelletto e della mente. Perciò la memoria non può essere considerata una prova valida di conoscenza. Essa infatti non fa conoscere nulla che in precedenza fosse sconosciuto. In ogni caso, l’esperienza del Testimone che certa gente sostiene di aver fatto[9], si è verificata nel corso di un certo periodo, perché il conoscitore deve aver comunque espletato l’azione del conoscere nel tempo; e, tramite questa conoscenza l’oggetto, prima conoscibile, potrà alla fine diventare conosciuto. Lo stesso ricordo di quell’esperienza non potrà però non aver registrato le fasi di questa azione. Perciò il fatto che il ricordo affiori alla memoria come se fosse quello di un’esperienza atemporale è dovuto al fatto che la memoria accorcia i tempi di ciò che essa ha a suo tempo ha sperimentato e registrato in una progressione temporale normale. Ovviamente l’esperienza che quelle persone hanno fatto in passato non concerne il Testimone, che è esente da ogni azione e non è sottoposto al cambiamento e al tempo; l’esperienza di cui si tratta consiste semplicemente in un’estensione dei limiti dell’“io” individuale fino a poter sperimentare al massimo l’“io” cosmico generale, cioè Hiraṇyagarbha. Coloro che sostengono questo errore, come i mīmāṃsaka Prabhākara e Śālikanātha, tendono a sostenere che ogni esperienza compiuta dall’“io” è della natura dell’illuminazione, ed è raggiunta per mezzo di una azione conoscitiva incomprensibilmente considerata atemporale in forza di una supposta “legge di apprendimento simultaneo” (sahopalambha niyama)[10]. È noto che la Pūrva Mīmāṃsā sostiene il primato del divenire sull’essere, dell’azione sulla contemplazione. Questa posizione è anche sostenuta da alcuni seguaci dello Yoga darśana che, in questo modo, confondono il raggiungimento dei poteri (siddhi) con l’ottenimento della conoscenza, quando invece quelli sono soltanto l’estensione della portata dei loro indriya fino ai limiti del dominio “generale” della manifestazione individuale. La tendenza di questi oppositori è quella di separare artificialmente l’“esperienza”, considerata “azione atemporale”, dalla dottrina, allo scopo di sostenere l’inutilità del vicāra vedāntico.[11]



Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore



[1] L’obiezione corrisponde al pensiero di Bhartṛprapañca.

[2] Sostenitori del Bhedābhedavāda, dottrina della distinzione-indistinzione: per costoro l’“io” è parzialmente identico al Brahman e parzialmente se ne distingue. Per esempio l’“io” è della stessa natura del Sé perciò ne è indistinto. Ma non ha il potere di manifestare il mondo, perciò in questo caso se ne distingue.

[3] Lì non ci sono carri, né cavalli da aggiogare [ai carri], né strade; ma egli [il Sakṣin] fa apparire i carri, i cavalli e le strade. Lì non ci sono piaceri, né gioie, né godimenti, ma egli fa apparire piaceri, gioie e godimenti. Lì non ci sono stagni, né piscine lustrali, né fiumi, ma egli fa apparire stagni, piscine lustrali e fiumi. Perché egli ne è la causa.BU IV. 3. 10. “A questo proposito ci sono questi brevi versi: l’infinito Essere auto luminoso, durante il sogno rende inconsapevole il corpo e, rimanendo in se stesso sveglio, osserva le forme del sogno come modificazioni mentali [da lui stesso] illuminate.” BU IV. 3. 11. Quest’ultima  citazone non è una traduzione letterale, che altrimenti sarebbe inintelligibile al lettore.

[4] Come una spada sguainata, la luce del Sé, l’eterno Testimone, non dipendente da nulla, distinto dal corpo e da sensi come la vista, è sperimentato com’è, mentre illumina tutto”. BUŚBh IV. 3. 9.

[5] BU IV. 3. 1-6.

[6] Naturalmente questo desiderio deve essere considerato di natura particolarmente sāttvika.

[7] BSŚBh I. 3. 19.

[8] Il significato del termine può essere espresso nei seguenti termini: l’Ātman apparentemente sottoposto alla condizione della vita (jīvan). Quando questa apparenza è presa come fosse reale, allora si usa definirlo con il termine di jīva, il vivente, sinonimo di ego (aham).

[9] La memoria, d’altra parte, è una facoltà tipica della mente. Non è un caso che queste richiami mnemonici di un’eventuale esperienza “mistica” del Testimone, avvenuta nel passato, avvengano in uno stato mentale di veglia alterato.

[10] Cfr. Śālikanātha Miśra, Prakaraṇa Pañcikā, Varanasi, BHU Ed., 1961, p. 334.

[11] A questa convinzione di superiorità dell’azione sulla conoscenza s’aggiunge, in alcuni ambienti tantrici, la conclamata superiorità della casta guerriera su quella brāhmaṇica, quindi dell’ars regia sull’ars sacerdotalis.

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